Diritti

Fashion Week: arriva la moda indigena canadese

Tra gli eventi collaterali anche l’esposizione, nello spazio Superstudio, delle creazioni di 7 designer ispirate alle popolazioni Inuit, Métis e Prime Nazioni
Credit: Dorothy Grant
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
21 febbraio 2023 Aggiornato alle 21:00

L’appuntamento tanto atteso dagli amanti della moda, ma anche dalle influencer pronte a immortalarsi con i look più cool possibili, è arrivato: la Milano Fashion Week.

Insieme a Parigi e New York, il capoluogo lombardo è senza alcun dubbio il polo di attrazione principale per le case di moda più blasonate, che stanno presentando questa settimana le loro collezioni autunno inverno 2023 in un clima che sembra essere tornato a quello pre pandemico: sfarzo tanto, movimento tantissimo, glamour a pioggia.

Come spesso accade però, gli eventi più curiosi sono quelli collaterali.

Questa volta ad attirare l’attenzione è quello che accadrà da domani al 27 febbraio all’interno di White Milano, negli spazi di Superstudio più di via Tortona, dove 7 designer dell’organizzazione no profit Indigenous Fashion Arts di Toronto esporranno abiti e accessori appartenenti alla cultura indigena nord americana.

Poco nota ma ricca di suggestioni, stili e pezzi unici, la moda di questa area del mondo è sempre rimasta ai margini, così come lo sono le popolazioni indigene canadesi. Inuit, Métis e Prime Nazioni, infatti, pur vantando una cultura ricchissima sono nei secoli spesso stati vittime di soprusi, violenze e tentativi di smantellamento.

Fortunatamente non si è riusciti nell’intento di cancellarne l’esistenza e tanto meno l’identità e non è azzardato affermare che il loro riscatto possa passare anche dalla moda.

Tra coloro che esporranno a Milano ci saranno Lesley Hampton, designer e modella curvy di Temagami, in Ontario, nota soprattutto per i suoi capi sportivo e abiti da sera e Evan Ducharme, un artista Metis che attraverso vestiti sartoriali ispirati ai paesaggi del nord America difende i diritti dei popoli Cree, Ojibwe e Saulteaux.

E ancora, Justin Louis originario della Samson Cree Nation e creatore del brand di streetwear Section 35, che ha recentemente collaborato con Foot Locker Canada; Dorothy Grant, che crea abiti e accessori con motivi tribali, Robyn McCloud, che si ispira al futurismo, Niio Perkins, designer di accessori in perline irochesi e Erica Donovan, che realizza gioielli ispirati alla sua terra, e in particolare alla cultura Inuit.

L’evento milanese è frutto di una partnership commerciale tra la Indigenous Fashion Arts e White Milano, mediata dall’Ambasciata canadese in Italia.

«I nostri obiettivi sono celebrare, sostenere, presentare e supportare i designer indigeni nel settore», ha affermato la direttrice di Indigenous Fashion Arts, Sage Paul, svelando che oltre ai modelli esposti, sempre a Milano si terrà una rotonda su cosa sia la moda indigena e su come lavorare con i designer che se ne occupano, con la speranza di farla conoscere sempre di più e renderla presente alle fashion week del futuro.

Una scelta sicuramente interessante, che punta a rendere sempre più inclusivo un settore che, invece, nonostante i proclami più volte sbandierati mostra di non esserlo sempre troppo, come ha denunciato Stella Jean.

La stilista a capo del collettivo Wami (We are made in Italy), che supporta i designer Bipoc italiani, alla vigilia della Fashion week ha annunciato il suo sciopero della fame, proprio per denunciare la poca inclusività dell’evento.

«Nessuna promessa fatta dal presidente della Camera nazionale della moda italiana è stata mantenuta», ha detto, riferendosi al fatto che proprio la Camera abbia ridotto significativamente il sostegno economico a Wami, al punto da renderne impossibile la partecipazione a questa Fashion Week.

Per protesta Stella Jean non sfilerà nemmeno con il suo marchio e a prescindere dai torti o le ragioni di questo preciso avvenimento, con la Camera della moda che sostiene di aver trovato per loro soluzioni più che favorevoli, è un peccato che tra tanto glamour standardizzato e a volte sempre uguale a se stesso, pensato da bianchi, per bianchi in un mondo di bianchi, manchi una rappresentazione diversa e fondamentale come quella di Wami.

Per fortuna ci sono gli indigeni canadesi, ma questo, di certo, non basta.

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