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No, il sushi di salmone non è giapponese

Breve storia di come grazie a una campagna di marketing azzeccata un pesce proveniente dalla Norvegia è diventato un piatto “tipico” della cucina nipponica
Credit: Tamas Pap/unsplash
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
6 gennaio 2023 Aggiornato alle 20:00

Basta guardare il menu di un qualsiasi ristorante di sushi per averne la prova: i piatti a base di salmone crudo sono numerosissimi. Eppure di giapponese questo alimento ha ben poco, o almeno lo aveva fino a qualche decennio fa, prima che una campagna di marketing cambiasse tutto.

Come ha ricordato in un lungo thread il giornalista di Bloomberg Trung Phan, fino agli anni Novanta il salmone crudo non veniva mangiato in Giappone.

Tradizionalmente, infatti, nella patria di sushi e sashimi il salmone del Pacifico faceva parte sì della dieta, ma era considerato un pesce spazzatura che si consumava solo stagionato, fritto o alla griglia, generalmente come riempitivo di pasti economici.

Il motivo per il quale non era usato nel tradizionale sushi Edo-mae e mangiato crudo è la presenza dei parassiti, che prima delle più moderne tecniche di refrigerazione e acquacoltura ne rendevano piuttosto rischioso il consumo, se non dopo la cottura.

Cosa è cambiato allora? La Norvegia ha condotto una campagna decennale per vendere salmone atlantico nel Paese dell’Asia orientale. E il piano ha funzionato.

Uno dei primi a capire le potenzialità del mercato nipponico e stato Thor Listau, un membro del comitato della pesca norvegese. Durante una visita con una delegazione ufficiale in Giappone nel 1974, aveva notato come il tonno fosse un pesce pregiato dai prezzi elevati, mentre il salmone (di scarsa qualità) veniva fritto ed essiccato in grandi quantità e a prezzi bassi. Questa differenza gli fece notare un vuoto di mercato che gli consentì di aprire la strada all’ingresso trionfale del salmone d’allevamento norvegese senza parassiti.

Due sono state le condizioni che hanno favorito la conquista nipponica da parte della Norvegia: in primo luogo, a partire dagli anni Settanta grazie all’acquacoltura è riuscita ad allevare salmone atlantico senza parassiti. Il problema è che ne ha prodotto troppo. Questo ha portato alla seconda condizione, ovvero il surplus legato ai sussidi governativi e la conseguente necessità di trovare un modo per sbarazzarsi del salmone in eccesso.

Nello stesso periodo il Giappone, che aveva un consumo medio di pesce annuale quattro volte quello globale, stava per vivere una piccola rivoluzione: dopo anni di autosufficienza, le forniture stavano diminuendo a causa della pesca eccessiva e dal ban dalle zone di pesca di altri Paesi.

La Norvegia aveva troppo pesce, il Giappone troppo poco. Perché domanda e offerta si incontrassero però c’erano almeno 3 ostacoli da superare: lo stigma del salmone crudo, il colore diverso del salmone atlantico e il maggior grassezza del salmone di questo tipo che lo rendeva poco gradito.

    Il primo salmone norvegese è stato importato in Giappone nel 1980, ma era destinato alla griglia e non al sushi. Nonostante questo, è stata la prima breccia.

    Per superare gli ostacoli ed entrare a pieno regime nel mercato giapponese, nel 1986 il governo norvegese lanciò quindi il Project Japan, che includeva, tra molte altre cose, l’utilizzo del salmone atlantico crudo nelle ambasciate in Norvegia, incontri con chef famosi in Giappone per spingere a usare il salmone atlantico e partnership con fornitori giapponesi.

    Più degli sforzi governativi e delle pubblicità che decantavano le fresche acque del Nord Europa in cui crescevamo i salmoni, però, a fare la differenza fu un singolo accordo, quello con Nichirei, famosa per i suoi alimenti surgelati. La Norvegia ha offerto all’azienda 5000 tonnellate di salmone atlantico con un grande sconto ma a una condizione: avrebbe dovuto commercializzarlo come sushi crudo.

    Il resto, come si suol dire, è storia. Una storia molto remunerativa per la Norvegia, che a fronte di una spesa di circa 30 milioni di dollari per il Project Japan ha visto decollare l’export verso il Giappone, passando dalle 2 tonnellate di del 1980 alle 28.000 tonnellate nel 1995. Il successo poi ha spinto il Paese scandinavo ad affrontare un mercato ancora più grande, la Cina.

    Non solo, la spinta tutta economica della Norvegia si è trasformata in una piccola grande rivoluzione gastro-culturale. Il consumo di salmone crudo, infatti, è decollato prima nei kaiten-sushi (i ristoranti in cui il sushi è servito sul nastro trasportatore), per poi imporsi come mainstream e arrivare fino alle nostre tavole, presentato come un classico della cucina giapponese.

    Trent’anni di tipicità in una storia di oltre due millenni.

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