Ambiente

Il mio verde, verde Uruguay

Il mondo si divide in Paesi industrializzati e inquinanti o sottosviluppati e non inquinanti. Poi, l’eccezione
Alessandro Cinque per il New York Times
Alessandro Cinque per il New York Times
Caterina Tarquini
Caterina Tarquini giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
12 novembre 2022 Aggiornato alle 17:00

Se un giorno avessi improvvisamente voglia di trasferirti in un luogo meno inquinato e con uno stile di vita più sostenibile, potresti volare in Uruguay. In genere i Paesi si dividono tra quelli industrializzati e a alta densità energetica e quelli sottosviluppati, poveri e per questo meno inquinanti. Nel panorama generale, una felice eccezione è rappresentata dall’Uruguay, al primo posto in Sud America per tasso di scolarizzazione, accoglienza e integrazione degli immigrati, digitalizzazione e, in generale, per diritti politici e libertà civili.

Un Stato tra i più piccoli e meno densamente popolati della Terra: una lunga distesa di praterie, praticamente ininterrotta per chilometri e chilometri. Il rapporto tra bestiame e persone in queste regioni è di 4 a 1. Non è un caso infatti che il paese sia stato spesso soprannominato “the paradise of fat cows”.

Dopo che nel 2009 i costi di produzione per le energie rinnovabili hanno iniziato a competere con quelli dei combustibili fossili, l’allora presidente José Mujica - definito dal New York Times un improbabile leader, ex fornaio e commerciante di fiori, capo della guerriglia dei Tupamaros, imprigionato e torturato e oggi considerato l’archetipo dell’uruguaiano - intravide l’opportunità di sganciarsi una volta per tutte dalle centrali termiche e avviare una transizione del settore energetico. Il paesaggio dell’Uruguay offriva in questo senso un ambiente assolutamente favorevole: un susseguirsi di ranch scaldati dal sole e scossi dal vento del Sud America, che ben si prestavano all’installazione di grandi impianti.

Nei successivi 10 anni, a un ritmo impressionante l’Ute (The National Administration of Power Plants and Electrical Transmissions, compagnia elettrica del governo uruguaiano) e numerosi investitori privati ​​hanno costruito decine di parchi eolici e solari, sull’onda di un mercato in forte espansione. Sebbene spesso si sostenga che un processo di decarbonizzazione può determinare una forte contrazione dell’economia, l’Uruguay ha registrato invece una crescita costante per oltre un decennio.

C’era poi il problema della carne bovina. Il bestiame nel suo insieme è responsabile del 14% delle emissioni globali totali. Se nel mondo si assiste alla lenta, ma progressiva, conversione a una dieta a base vegetale, in America il consumo di carne è ancora profondamente radicato nella cultura. “L’americano medio mangia ancora 55 libbre di carne di manzo all’anno”, scrive Noah Gallagher Shannon, autore dell’articolo del Nyt

Inutile dirlo, in Uruguay il gusto per la carne bovina è quasi un tratto nazionale. Decine di migliaia di allevamenti del Paese producevano fino a un decennio fa circa 12 milioni di capi di bestiame e circa 19 milioni di tonnellate di gas serra, quasi la metà dell’inquinamento prodotto dall’intero Paese. Ma, a partire dagli anni ‘90, ha compiuto un’impresa straordinaria: far crescere la produzione annuale di carne bovina senza al contempo aumentare la produzione di gas serra, sfruttando le distese erbose a disposizione.

Tanti poi gli esempi virtuosi, anche nell’ambito dell’istruzione e della formazione dei ragazzi: come per esempio la Escuela Sustentable di Jaureguiberry, un villaggio che conta appena 500 abitanti, a breve distanza dalla capitale Montevideo, apparsa sui giornali italiani nel 2017. Un istituto sui generis, con un complesso di edifici costruiti interamente con materiali riciclati, non connessi alla rete elettrica perché autosufficienti dal punto di vista energetico e che non necessitano di un impianto di climatizzazione perché in grado di mantenere costante sui 20 gradi centigradi la temperatura degli ambienti interni.

Ad averla progettata, secondo i principi dell’edilizia sostenibile, è stato l’architetto statunitense Michael Reynolds, noto per aver costruito numerosi edifici con la spazzatura. L’energia viene accumulata attraverso pannelli fotovoltaici installati sul tetto e le grandi vetrate esposte a sud consentono un uso ridotto al minimo della luce artificiale.

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