Diritti

Iran: a morte chi protesta

227 deputati su 290 hanno firmato un documento per richiedere la pena capitale per le persone arrestate durante le manifestazioni scatenate dalla morte di Mahsa Amini
Credit: Eric Renom/ZUMA Press Wire
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9 novembre 2022 Aggiornato alle 17:00

Sono «nemici di Dio e dell’Iran» e non meritano «nessuna pietà». Così si è espressa la maggior parte del parlamento iraniano (227 deputati su 290) che invoca la condanna a morte per chi partecipa alle manifestazioni in corso in tutto il paese da ormai quasi due mesi.

In una dichiarazione approvata il 6 novembre la quasi totalità del majles si è rivolta al potere giudiziario invocando un’azione «decisiva nel minor tempo possibile» contro chi protesta e contro chi che li sta incitando. Il capo del potere giudiziario Mohseni-Ejei, già accusato di molteplici violazioni dei diritti umani, ha sostenuto a sua volta l’uso della pena di morte davanti al Supremo Consiglio per la Sicurezza Nazionale in un incontro tenutosi il 7 novembre.

Il documento punta il dito anche contro gli Usa, condannando la loro ingerenza in diversi paesi del Medio Oriente, incluso l’Iran. Secondo i parlamentari, Washington avrebbe preso il controllo della contestazione e starebbe aiutando i manifestanti con armi e finanziamenti, incoraggiandoli ad attaccare le forze di sicurezza. Le accuse ai nemici esterni non sono una novità nella propaganda della Repubblica islamica e anche in questo caso la guida suprema Ali Khamenei e il presidente Ebrahim Raisi si erano già scagliati contro le potenze straniere, colpevoli di aver istigato i rivoltosi, paragonati ai miliziani di Daesh che «attaccano la vita e la proprietà».

Le persone che stanno protestando sono state definite mohareb, nemici di Dio, e accusate di «corruzione sulla terra» (efsad-e fel-arz) e «ribellione armata» (baghi), colpe passibili della pena di morte. Le stime sulle persone arrestate e quindi a rischio della pena capitale variano a seconda delle fonti, ma si aggirano sull’ordine delle migliaia. Nella sola provincia di Teheran sarebbero almeno 1.000. Nelle scorse settimane sono già stati aperti i processi per condannare a morte 5 persone che hanno preso parte alle proteste.

Il deputato Seyed Nezame-din Musawi ha rilasciato ieri una dichiarazione per cercare di placare il forte movimento suscitato dal documento dei rappresentanti. Secondo Musawi esiste una distinzione tra «vandalismo» e «protesta» e sottolinea che l’appello fa riferimento a chi «ha fatto ricorso alla violenza» e non alla totalità dei manifestanti. Specifica anche che non si fa menzione della pena di morte, ma della «vendetta» (qisas, un concetto islamico che implica una punizione analoga alla colpa commessa, ndr) che merita chi ha tolto la vita ad altre persone: «non è accettabile usare la protesta come giustificazione per uccidere e nessuna tolleranza è accettabile per questi crimini».

Secondo una dichiarazione del Center for Human Rights in Iran l’appello del parlamento iraniano testimonia la debolezza dei vertici della Repubblica islamica, pronti a qualsiasi cosa pur di stroncare le manifestazioni. L’organizzazione basata in Norvegia stima che dall’inizio delle proteste siano già state uccise più di 300 persone, di cui 40 minori. Solo nel 2022, l’Iran ha eseguito 465 condanne a morte, per un totale di 6876 dal 2010.

Il rischio è che il governo di Teheran possa ricorrere alle esecuzioni di massa per silenziare le proteste. Questa eventualità riporta alla mente il periodo buio dei cosiddetti “tribunali della morte (capeggiati proprio dall’attuale presidente Raisi) e le esecuzioni sommarie di massa di migliaia di persone tra il 1988 e il 1989.

Le proteste sono iniziate lo scorso 16 settembre, dopo la morte di Mahsa (Zhina) Amini, una ragazza curda di 22 anni fermata dalla polizia morale per non aver indossato correttamente il velo. Da questo ennesimo episodio di violenza nei confronti di una donna è partito un movimento che reclama non solo parità di diritti di genere, ma anche la fine dell’oppressione da parte della Repubblica islamica.

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