Diritti

No, le donne iraniane non protestano contro il velo

L’ossessione del femminismo bianco per un simbolo rivela la tendenza a imporre i propri valori, la propria visione e interpretazione del mondo
Il presidio organizzato da Cgil, Cisl e Uil in solidarietà alle donne iraniane colpite dalla repressione del regime, a Milano l'11 Ottobre 2022
Il presidio organizzato da Cgil, Cisl e Uil in solidarietà alle donne iraniane colpite dalla repressione del regime, a Milano l'11 Ottobre 2022 Credit: ANSA/Andrea Fasani
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12 ottobre 2022 Aggiornato alle 06:30

Cominciamo mettendo giù alcuni punti fondamentali, per chiarezza. Le proteste in Iran sono nate da una violenza ai danni di una giovane donna, Mahsa Amini, arrestata dalla polizia religiosa per un velo portato in maniera “non corretta”, e morta in seguito a un pestaggio, nonostante le cause ufficiali della morte secondo le autorità siano dovute a una condizione pregressa. Da allora, donne e uomini hanno invaso le strade di Teheran, protestando contro il regime degli ayatollah, la teocrazia, la repressione, la segregazione di genere e oltre quarant’anni di oppressione intollerabile che ha reso la vita impossibile alla popolazione, specialmente quella molto giovane.

Cosa hanno capito le femministe bianche? È una protesta contro il velo.

Mahsa Amini era, per giunta, curda: il suo nome in famiglia era Jina, ma in Iran solo i nomi di origine persiana sono ammessi all’anagrafe. Chi segue un po’ la politica internazionale non può non sapere che i curdi sono stati e sono tuttora oggetto di persecuzione, che il Kurdistan non è uno Stato indipendente nonostante il termine indichi un’area geografica specifica, e che anche nel caso delle rivolte di Teheran gli ayatollah hanno cercato di scaricare su di loro la responsabilità di aver fomentato i disordini. Chi come Maria Edgarda “Eddi” Marcucci conosce bene la loro storia (ed è stata sotto sorveglianza speciale per aver combattuto al fianco delle donne curde contro l’Isis) si spende parecchio per evitare una lettura riduzionista di questa sollevazione. Ma quando manca l’attitudine all’ascolto, manca tutto.

Quando diciamo “femministe bianche” è facile equivocare e pensare a tappeto a tutte le femministe di origine caucasica. È un equivoco in cui sono caduta anche io, anni fa, con risultati di cui non sono proprio orgogliosa: ho capito in seguito che quando diciamo “femminismo bianco” non intendiamo necessariamente ogni femminismo praticato dalle donne bianche, ma uno specifico orientamento politico che mette le donne bianche al centro di ogni ragionamento e le pone come riferimento valoriale.

Non tutte le femministe bianche sono femministe bianche, insomma, se mi passate il gioco semantico. Ma niente di quello che diciamo può essere comprensibile se non si chiarisce prima di tutto che i femminismi sono movimenti politici plurali, in cui l’identità gioca un ruolo primario nel definire la prospettiva da cui si osserva il mondo e si decidono le priorità della lotta. Il femminismo bianco, inteso come orientamento politico, ha il difetto di tutti i movimenti politici centrati sulla supremazia (rivendicata o di fatto) dei bianchi: è convinto di essere unico arbitro di quello che è giusto e sbagliato, e di poter rileggere ogni evento, ogni lotta e ogni movimento in quella prospettiva.

A questo dobbiamo aggiungere la sempiterna fascinazione delle donne occidentali verso il velo, quasi un’ossessione, nutrita negli anni anche da storie dell’orrore tipo Mai senza mia figlia, film tratto dal memoir di Betty Mahmoody, in cui Sally Field deve fuggire dall’Iran e da un matrimonio violento. In questa visione, il velo non può essere che oppressione, obbligo, imposizione patriarcale. Le donne iraniane che se lo tolgono in pubblico e si tagliano i capelli per protesta starebbero quindi protestando contro il velo in sé, e non contro l’imposizione di un codice di abbigliamento che è opprimente perché inevitabile, nonché segnale di una subalternità che va ben oltre i centimetri di stoffa indossati. Il velo non è il problema. L’assenza di scelta, la discriminazione, essere considerate cittadine di seconda scelta: quello è il problema.

Le donne iraniane, e in generale le donne musulmane, lo ripetono da tempo con una certa chiarezza: se del mio corpo sono io a disporre, devo anche essere io a decidere se coprirmi o meno, come e quanto. Questo vale sia per chi il velo lo porta, sia per chi non lo porta e lo ritiene o meno un simbolo di oppressione tout court: il dibattito fra le femministe musulmane è da sempre vivace e a volte anche molto teso. Non sta alle donne occidentali, e meno che mai alle femministe laiche, tentare di orientarlo in un senso o nell’altro.

Nella protesta iraniana di questi giorni, il velo è un segnale. È un mezzo di ribellione, assimilabile per certi versi al seno nudo esibito dalle donne occidentali: è una violazione di una convenzione stabilita sulla nostra pelle, la messa in discussione di un limite di decenza imposto, oltrepassato il quale ogni aggressione è giustificabile. “Se ti vesti in maniera provocante, poi non ti lamentare se ti toccano”, si dice spesso alle donne che hanno subito molestie o violenza. Ogni comportamento può essere riesaminato alla luce di una supposta inevitabilità della violenza maschile, che sta alle donne sventare.

Ma non è nemmeno così, non è nemmeno tutto qui, la liberazione del corpo è solo una parte del problema, è parte di una rivolta generalizzata che va ben oltre la questione del velo. La rivoluzione islamica, che spodestò lo Scià con la sua vita favolosa e le sue mogli bellissime sposate a scopo di riproduzione e ripudiate se non gli davano figli (sono cresciuta con i giornali di gossip delle mie nonne, ricordo tutto della storia di Soraya Esfandiary e Farah Diba), ha imposto agli iraniani uno stile di vita che non è solo opprimente, è anche condizionato dalla discrezionalità con cui leggi e norme possono essere applicate in ogni momento. Se il riferimento è Dio, e Dio parla solo attraverso un gruppo ristretto di uomini che affermano di agire in suo nome, non esiste spazio per l’individuo.

Dovremmo farci una nota mentale per ogni volta in cui Giorgia Meloni dice “Dio, patria e famiglia” come se non si trattasse di un motto fascista e non costituisse una minaccia aperta alla laicità dello Stato, il bene più prezioso che abbiamo. Lo slogan della rivolta iraniana è “Donna vita libertà”: la seconda e la terza non si possono avere senza la prima. Le iraniane non combattono per abolire il velo, ma per essere finalmente al centro della vita sociale del loro Paese, velate o meno.

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