Bambini

C’era una volta un asilo nido

La sua storia ha inizio tanti anni fa, nell’800, quando era un luogo di supporto per le famiglie più povere. Oggi il sistema educativo infantile è caratterizzato da diverse teorie pedagogiche e leggi regionali
Nido d’infanzia “La balena” di Mario Cuccinella Architects
Nido d’infanzia “La balena” di Mario Cuccinella Architects Credit: Moreno Maggi
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24 luglio 2022 Aggiornato alle 13:00

La comparsa del nido

In Italia, la vera prima realizzazione di quello che etimologicamente è l’asilo (da a-sylon: assenza di pericolo) avvenne all’inizio dell’Ottocento. L’asilo era un luogo di supporto per le famiglie povere che si trovavo a carico dei figli piccoli.

Dagli anni Trenta il termine iniziò a indicare le strutture dedicate alla “seconda infanzia”, tra i 3 e i 6 anni. Queste, sul modello del primo fondatore Ferrante Aporti, miravano a dare delle conoscenze base ai bambini che, con buona probabilità, non avrebbero continuato gli studi. Per questa ragione, come moneto di sacco dalle tradizionali lezioni, venivano proposte delle attività di artigianato per i maschi e di economia domestica per le femmine.

Seguendo l’esempio di Parigi e Vienna, l’educatore milanese Giuseppe Sacchi decise di portare anche in Italia un servizio per la prima infanzia (0-3 anni), pensato per la custodia dei figli delle operaie. Nonostante la diffusione su tutto il territorio italiano gli ostacoli non mancarono: in particolare, gli alti costi del servizio (più alti di quelli della seconda infanzia a cause della necessità di assumere più personale) e la discontinua presenza di bambini. Nell’interesse economico delle stesse fabbriche che impiegavano le donne, furono istituiti gli asili aziendali, che avevano il vantaggio di consentire l’allattamento con la minore perdita di tempo lavorativo. In entrambi i casi, a chi faceva le veci della madre non veniva richiesta nessun tipo di preparazione specifica.

Usufruire di questi servizi, però, significava dimostrare di provenire da una situazione di difficoltà a livello economico-sociale e venire stigmatizzati (sia madri che bambini) come un problema demografico e sanitario.

Sotto il regime fascista nacque l’Opera Nazionale maternità e Infanzia (ONMI), che - sulla base della legge che la istituì, la n. 2277 del 10 dicembre 1925 - si prefissava di supportare le madri lavoratrici grazie a un complesso sistema di strutture. Si potevano trovare, per esempio, un consultorio pediatrico, un asilo per lattanti a tempo pieno o un asilo nido, detto presepe, che si avvicina molto all’asilo-nido di oggi.

Il focus era la salute della donna incinta perché potesse in seguito assumersi le responsabilità materne, attenzione che ti traduceva nel limitare l’accesso ai servizi dell’ONMI solo alle madri i cui comportamenti fossero in linea con la moralità del partito fascista. Dato il prevalente aspetto igienico-sanitario, lo spazio era diviso in tre ambienti: il dormitorio, il refettorio e un ampio salone.

Sia gli asili aziendali sia quelli ONMI presentavano delle problematiche: l’iniqua distribuzione sul territorio, il non essere accompagnati da politiche sociali, l’assenza dell’elemento pedagogico della questione. In questo contesto fu introdotta la legge 1044 del 1971, la prima legge importante nel campo dell’infanzia, che rendeva l’accesso all’asilo nido un diritto ad accedere a un servizio pubblico.

I fondi per i finanziamenti diventarono pubblici, gli asili iniziarono a essere visti come rivolti a tutti, non solo a chi si trovasse in difficoltà economiche. L’obiettivo: accogliere tra il 1972 e il 1976 almeno il 5% dei bambini di età inferiore ai tre anni nei 3800 asili nido di cui l’Italia doveva fornirsi. Allo scadere del termine, erano state attivati solo il 10% degli asili previsti e questi numeri furono, nella realtà, raggiunti solo negli anni ’90, senza però superare il divario Nord-Sud.

Per spiegare il perché di questo fallimento bisogna tenere a mente due fattori: gli alti costi di gestione degli asili nido e il processo di burocratizzazione a cui queste strutture sono state sottoposte.

Dall’altra, a favorire l’implementazione di successo della legge 1044, vi fu una nuova sensibilità culturale che dagli anni Settanta, ma in particolare dagli anni Ottanta in poi, ha cominciato a rifiutare la narrativa della madre casalinga alla quale si impediva di lavorare. A questo si affiancò una nuova visione del bambino che si sviluppò sulla base degli studi socio-psicopedagogici che preservo il via dal primo Novecento, tra queste le teorie deweyane e montessoriane. Il ruolo fondamentale che gli asili acquisirono così fu quello di occuparsi di tutti i bambini e le bambine nella prospettiva di una socializzazione globale.

Il nido di oggi

Oggi il sistema di educazione infantile è caratterizzato da numerose diverse teorie pedagogiche a cui rifarsi e, soprattutto, da diverse leggi regionali, che applicano al contesto specifico le leggi fondamentali italiane, tra cui la numero 1044.

Il nido rappresenta la prima tappa educativa che viene organizzata quotidianamente in base ai ritmi fisiologici del bambino, dai pasti al riposo. Vista la maggiore domanda di questi servizi dai due anni in su, è stata istituita la sezione primavera che si specializza nella presa in carico di bambini nel terzo anni di vita.

A questi servizi si integrano altre proposte che cercano di andare in contro a diverte culture o esigenze organizzative. Sommariamente si possono differenziare i seguenti servizi integrativi per la prima infanzia: i nidi famiglia, rivolti alla fascia 3-36 mesi, che si caratterizzano per l’ambiente domestico e la flessibilità di frequenza; i centri bambini-genitori, che coinvolgono i genitori nel servizio per bambini tra i 3 e 36 mesi; gli spazi gioco, dove dai 18 mesi un bambino può essere accolto per incentrare le sue attività e sul gioco, la socialità e la flessibilità di frequenza.

Questi ultimi, stando ai dati del 2017, offrono più di un posto ogni 100 residenti tra gli 0 e i 2 anni. Gli altri servizi hanno coperture minori.

Come e da chi viene regolato il nido

In questo quadro, già di per se non immediato, bisogna aggiungere un sistema di governance su più piani. Il documento Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei affida al Mistero dell’istruzione il compito di indirizzare, coordinare e promuovere la progressiva ed equa estensione dell’educazione infantile.

Vengono delineati poi degli obiettivi strategici: aumentare l’offerta, ridurre la differenza nella diffusione e agevolare la frequenza, obiettivi che vengono realizzati dai Comuni grazie ai fondi che periodicamente lo Stato stanzia. Infine, lo Stato ha il compito, insieme alle amministrazioni regionali, di far si che le informazioni sulla presenza, le caratteristiche organizzative e la capienza dei servizi per l’infanzia siano reperibili ai cittadini.

Le regioni hanno il ruolo di co-finanziatrici e sostenitrici dello sviluppo ed estensione dei servizi educativi per l’infanzia nelle loro diverse topologie. In particolare, si devono occupare di definire i requisiti strutturali e organizzativi per ciascuna tipologia di servizio e sovrintendere ai processi di autorizzazione al funzionamento, vigilanza e accreditamento, anche per le strutture private, svolti dall’ente locali.

Oltre a questa responsabilità, l’ente locale è chiamato a costruire e gestire - direttamente o indirettamente - i servizi per l’infanzia e promuovere il coordinante territoriale attraverso occasioni di scambio di riflessioni e iniziativa di formazione congiunta tra i servizi educativi e le scuole dell’infanzia. Quest’ultimo punto viene semplificato se i servizi sono raggruppati in un edificio detto Polo per l’infanzia, che permette di offrire una continuità del percorso educativo.

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