Diritti

Medici di famiglia cercasi

La desertificazione professionale coinvolge drammaticamente la figura del medico di famiglia: secondo le stime, nei prossimi 6 anni ne andranno in pensione 36 mila. Urge un cambiamento
Credit: Matthew Waring
Tempo di lettura 6 min lettura
30 giugno 2022 Aggiornato alle 06:30

È ampiamente dimostrato che i sistemi sanitari che utilizzano la medicina generale come primo punto di contatto per i cittadini sono universalmente riconosciuti come migliori, più efficaci (miglior salute) ed efficienti (minori costi e maggiore appropriatezza) rispetto a quelli privi di medicina di base. Quello italiano, anche al netto della discontinuità dovuta al recente stress pandemico, è considerato tra i migliori al mondo. Chiaro quindi che, se si prospetta una crisi numerica dei medici di medicina generale disponibili, si sta toccando uno dei fondamentali della sanità pubblica italiana.

Il tema della desertificazione professionale coinvolge drammaticamente la figura del medico di famiglia e fra i tanti deficit - non nascondendone gli innegabili meriti – della sanità italiana, portati in emersione dalla pandemia, vi è quello demografico della medicina generale. Non ci sono abbastanza medici di famiglia e, dati alla mano, è certo che in prospettiva i cittadini ne dovranno fare a meno, questo anche in virtù di una domanda crescente di sanità dovuta alla imminente riorganizzazione in chiave di medicina territoriale.

Già oggi parte degli italiani non riesce ad avere il medico, e il domani è a tinte fosche perché l’età media dei dottori di famiglia è di 59 anni, quindi, nei prossimi 6 anni ne andranno in pensione 36 mila su un totale, già scarso, di 50 mila attualmente in forza. Il tutto a fronte di soli 6000 nuovi ingressi dal corso di medicina generale.

Ma la carenza di medici e personale medico sta mandando in crisi una dopo l’altra anche numerose discipline specialistiche, come la ginecologia, l’oculistica, la radiologia. Che fare? Se è impercorribile l’ipotesi di aumentare l’affollamento del numero di pazienti a carico di ogni singolo medico, è invece proponibile una utile collaborazione fra Stato e altri soggetti, senza costi aggiuntivi, per la creazione di una medicina di base organizzata in team, il tutto aiutato da un impiego forte della tecnologia nell’interazione con il paziente.

Nulla di nuovo, bensì un modello efficace già testato in Paesi come UK o Finlandia, dove la medicina di base è erogata all’80% via chat e al 20% tramite visita fisica. Un passaggio obbligato, nel rispetto dell’art. 32 della Costituzione, anche in previsione del Dm 71 che traduce in realtà la Missione Salute del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), prevedendo la riorganizzazione dell’assistenza territoriale con l’introduzione delle case di comunità (il PNRR stanzia 2 miliardi di euro per realizzare 1.350 Case della Comunità) e di un numero sempre più elevato di personale medico da ingaggiare.

Una riorganizzazione questa che a mio parere nasce claudicante se, oltre a mancare i medici, prevede un conto per aumento di fondi insufficiente: 15 miliardi in 5 anni, quindi 3 miliardi l’anno, che vanno a investimento e non in spesa corrente, cioè quella da prevedere per il funzionamento, a esempio, delle case di comunità, per le quali a règime serviranno 4 miliardi l’anno.

La proposta su questo punto è: fatti gli adeguati calcoli sul fabbisogno di medici di medicina generale (a 1500 pazienti come numero massimo) e compresa l’entità del deficit, si apre l’accreditamento di aziende pubbliche e private per l’erogazione di servizi di medicina di base e si consente ai cittadini di scegliere se andare con un MMG classico o usufruire di questo nuovo servizio. Questo consentirebbe di sperimentare forme organizzative nuove, in cui si faccia uso più spinto delle tecnologie.

Una sperimentazione questa che promette un buon funzionamento, scaricando l’affollamento insostenibile dei pazienti in carico a ogni medico di base. Si potrebbe iniziare con una sperimentazione che per un anno consenta a una percentuale di abitanti a rischio di perdere il dottore di famiglia, di ricevere le prestazioni di medicina di base presso strutture accreditate. Secondo il criterio che non si certifica più il punto d’accesso, cioè “chi” eroga il servizio ma l’outcome e quindi la qualità. In ogni caso sarebbero il gradimento degli utenti e gli esiti di salute a indicare la strada.

Le aziende possono investire sul servizio e sulla tecnologia, cosa che i singoli medici di fatto non fanno, avendo quindi un uso della tecnologia minimale. Gli orari di apertura e i processi di prenotazione diventerebbero un elemento competitivo fondamentale per attrarre i pazienti, risolvendo in un colpo solo un annoso tema di accessibilità alla medicina di base.

Le aziende che possono offrire questo servizio sono mediamente capaci di offrire anche servizi in filiera e quindi possono creare percorsi diagnostico-terapeutici che migliorano la qualità del percorso utente. Il servizio, non essendo più centrato su una persona sola, permette di offrire una differenziazione basata sui bisogni dell’utente, avendo a esempio dei medici specializzati su alcune patologie. Il budget pubblico rimarrebbe inalterato o addirittura potrebbe diminuire se la tecnologia nei prossimi anni permetterà una presa in carico più efficiente.

Nei successivi anni ci sarebbe un miglioramento del servizio perché rimarrebbero in vita solo i medici e le istituzioni più capaci, mentre oggi in scarsità di personale l’offerta è largamente dominante rispetto alla domanda nelle scelte dei pazienti. La pubblicazione e comparazione dei dati clinici per ogni erogatore permetterebbe di valutare chi è migliore e permetterebbe ai pazienti di fare una scelta consapevole. Molto probabilmente ci sarebbe una specializzazione per patologia, o fascia di età degli erogatori.

Faccio un esempio: a Milano potrebbe esserci una istituzione riconosciuta come super-esperta nella presa in carico dei diabetici e questi preferirebbero andare lì perché saprebbero che i dati clinici sono migliori. I dati diventerebbero fondamentali per capire cosa sta succedendo alla qualità del servizio. Ogni azienda li monitorerebbe e lavorerebbe alacremente al loro miglioramento perché diventano il principale vantaggio competitivo.

È necessario un dibattito serio, scelte radicali e non ideologiche, che utilizzino il privato in chiave collaborativa. Solo così se ne esce, mantenendo alti gli standard qualitativi che hanno sempre caratterizzato il nostro servizio sanitario nazionale.

Luca Foresti, Ceo di Santagostino

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