Ambiente

Francia: la difficoltà nel tracciare la filiera degli ingredienti preoccupa anche il Governo

Mentre nel mondo ogni anno si butta un miliardo di pasti al giorno, l’associazione dei consumatori francese denuncia che la maggior parte degli alimenti in commercio ha provenienza dubbia
Credit: Yasin Arıbuğa 
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6 aprile 2024 Aggiornato alle 15:00

In Francia l’associazione consumatori ha analizzato 243 alimenti prodotti da 14 nomi importanti della grande distribuzione e ciò che è emerso è una opacità dilagante.

Infatti, il 69% degli alimenti esaminati, tra insalate, cibi in scatola, piatti pronti di vario genere, panini e salumi, presenta anomalie per quanto riguarda la provenienza degli ingredienti. Nel 47% dei casi si tratta di alimenti, o di alcuni degli ingredienti che li compongono, senza alcuna denominazione d’origine; mentre il restante 22% è accumunato dalla presenza sulle confezioni di diciture poco chiare o addirittura estremamente generiche come “origine UE” o “origine extra UE”.

Le lacune maggiori riguardano cereali e legumi e secondo l’associazione consumatori ciò è strettamente legato al fatto che entrambe queste categorie alimentari non siano mai state assoggettate all’obbligo di etichettatura, una circostanza che, evidentemente, ha generato nel tempo una sorta di wild zone che oggi si traduce nell’84% dei prodotti di questa categoria analizzati privi di alcun tipo di indicazione in merito alla loro provenienza.

Dopo cereali e legumi, i grandi protagonisti di questa falla sono pollame, maiale e manzo, che mancano di indicazioni rispettivamente nel 64%, 38%, 32% dei casi.

Al termine dello studio, l’associazione consumatori francese ha dichiarato che questa ampia opacità non è imputabile alla inevitabile variabilità della provenienza degli ingredienti, bensì alla sistematica modalità di approvvigionamento scelta dalle aziende, perlomeno dalle quattordici prese in esame.

Tra le varie aziende prese in esame, Sodebo, che vanta 50 anni di attività nel settore alimentare e in particolare nella produzione di panini, pizze e pasta, è risultata avere meno del 10% dei prodotti indicanti l’esatta provenienza degli ingredienti. «Questo non è legato a una volontà di non trasparenza ma alla complessità tecnica della messa in opera» hanno dichiarato i responsabili.

Bonduelle e la sua incorporata Cassegrain si sono invece appellate a “vincoli tecnici” che non rendono di facile realizzazione un’indicazione più precisa dell’origine dei loro ingredienti.

Alla luce di quanto emerso, il Governo Macron ha annunciato di voler creare un indicatore dell’origine dei prodotti alimentari, che si chiamerà Origine-Info e le cui specifiche dovranno essere stabilite entro il prossimo 1° maggio.

Al contempo, però, è stato anche precisato che l’adesione sarà su base volontaria nell’ottica di rispettare quanto previsto dalle direttive europee.

Diverse aziende, tra le quali anche le sopraccitate Bonduelle, Cassegrain e Sodebo, hanno già accolto positivamente questo progetto.

Parallelamente, l’associazione consumatori francese ha rimarcato il concetto che, se questa misura rimane su base volontaria, non sarà possibile ottenere gli effetti desiderati, ossia eliminare l’attuale (grande) velo di opacità che ricopre il settore alimentare.

Inoltre, ha alzato l’asticella chiedendo anche che d’ora in poi l’indicazione della provenienza degli ingredienti riguardi anche la ristorazione, soprattutto quella gestita dalle grandi catene.

Ma il problema dell’opacità nelle informazioni sulla provenienza degli alimenti non è un’esclusiva Made in France. Così come non è una prerogativa esclusivamente francese quella di sprecare una grande quantità di cibo.

Infatti, secondo le stime dell’Onu, nel 2022 è finito nei cestini dell’immondizia di tutto il mondo l’equivalente di un miliardo di pasti al giorno,

Un numero enorme che dovrebbe far riflettere, soprattutto se contrapposto a quello delle persone che soffrono la fame, 783 milioni in tutto il mondo e a quello di chi si trova in una situazione di precarietà alimentare, una condizione che riguarda un terzo della popolazione mondiale.

Questo grande spreco alimentare nasce innanzitutto tra le mura domestiche dove si genera ogni anno circa il 60% dello sperpero. Ogni persone spreca in media 79 kg di cibo all’anno, un numero che si alza nel nostro Paese, dove a testa si gettano 107 kg annualmente.

A questi dati già poco confortanti dobbiamo aggiungere un’altra percentuale, ossia il 13%, che corrisponde allo spreco che si genera durante la fase di approvvigionamento dei cibi, dallo stoccaggio nei magazzini sino alla distribuzione.

Come se non fosse sufficiente, il report di Food Waste Index ha anche messo in evidenza la liaison esistente tra spreco di cibo e impatto ambientale. Questa cattiva abitudine, infatti, accresce le emissioni globali di gas serra nella misura dell’8-10% su scala mondiale, un’entità cinque volte superiore alle emissioni generate dall’aviazione.

Come indicato nel rapporto stilato dall’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), è dunque necessario puntare ai modelli già attuati da Giappone e Regno Unito dove è stato possibile tagliare lo spreco alimentare rispettivamente del 31% e del 18%.

Il Regno Unito, a esempio, dal 2005 porta avanti il progetto The courtauld commitment, un’iniziativa finanziata in parte dal Governo e in parte da aziende private, che consiste in una serie di provvedimenti atti a ridurre le perdite lungo tutta la filiera e in costanti campagne di formazione per i lavoratori del settore della ristorazione.

Il rapporto Unep si conclude con il suggerimento dell’adozione della misura della cooperazione tra i settori pubblico e privato quale chiave per compiere il primo step nella direzione “basta spreco”.

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