Ambiente

Non dovremmo più aspettarci nulla dalle multinazionali

La Shell e i suoi progetti di greenwashing provano che stiamo andando nella direzione sbagliata
A protester lays on the ground after being carried out of the Shell General Shareholders meeting during a demonstration at the Excel Centre in London, Britain, 23 May 2023.
A protester lays on the ground after being carried out of the Shell General Shareholders meeting during a demonstration at the Excel Centre in London, Britain, 23 May 2023. Credit: EPA/ANDY RAIN 
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10 marzo 2024 Aggiornato alle 06:30

Prospettive rosee, futuro verde. Questo ci viene promesso dalle grandi compagnie. Eppure, la maggior parte di queste promesse sono vuote, se non addirittura ingannevoli. Volutamente ingannevoli.

Alla lunga lista di proposte green anti ecologiche si aggiungono quelle di Shell, denunciate in un’inchiesta comune di Guardian e Drilled, nella quale si legge che la nuova startup Onward, portatrice di “importanti avanzamenti nella transizione energetica” è in realtà l’ennesimo progetto di copertura verde di una compagnia che vive e prospera grazie alla combustione fossile. Proprietaria di questa ecologissima impresa emergente è infatti Shell, la multinazionale petrolifera.

Ma torniamo a Onward, precedentemente nota come Studio X, e alle sue fiammanti promesse in materia di energia pulita. La startup promette velocità, innovazione e collaborazione alla modica cifra degli ultimi sprazzi di salute ambientale del nostro Pianeta. Onward, infatti, parrebbe concentrarsi comunque sull’uso di gas e petrolio, un progetto in netto contrasto con qualsiasi prospettiva di transizione verso l’energia pulita.

Una piattaforma che si propone di “abbattere barriere, democratizzare i dati e accelerare i percorsi verso l’innovazione energetica” parrebbe quindi essere l’ennesima falsa promessa fatta da una multinazionale a una popolazione globale sempre più cosciente della gravità della crisi climatica.

Superficialmente verrebbe da annoverarla come un’altra delusione, un altro grumo di marketing da impastare nel già tragico panorama in cui la pubblicità diventa più vera del reale. Ma c’è davvero chi riesce ancora a essere deluso? Dopotutto se le multinazionali si fondano sul profitto cercheranno sempre di inseguirlo, costi quel che costi. E se queste multinazionali si basano sulla predazione del poco capitale ambientale rimasto per convertirlo in un’economia di scambio, appare anche logico che procedano con campagne pubblicitarie o di investimento per allontanarci sempre di più dalla percezione reale di quello che fanno.

Nuovi nomi, nuovo linguaggio e nuovi siti, nuovi investimenti e nuovi progetti che alimentano sempre il medesimo flusso, rendendo però sempre più complicato rintracciarlo. Un processo di cartolarizzazione pubblicitario che dissocia progressivamente le persone, come singoli e come entità politiche, dalla realtà dei fatti. La stessa che in pochi vogliono ammettere ma che è tempo di guardare in faccia: non esiste transizione climatica per l’industria del fossile. Peggio ancora, non esiste giustizia climatica, figuriamoci quella sociale, con le multinazionali.

Per dirla con Saskia Sassen, si tratta di formazioni predatorie, entità che si muovono e si dipanano scivolando sulle tracce degli investimenti e sui percorsi del colonialismo, intrecciandosi a guerre e regimi totalitari per estrarre sempre di più.

Concentrando con crescente abilità gli strabilianti profitti - Shell da sola aveva realizzato, stando a Reuters, 28 miliardi in profitti - nelle mani dei pochi che possono permettersi di reinvestirli per ottenere di più, un gioco in cui il margine di rischio maggiore non viene patito dagli investitori ma da chi muore di povertà, guerra, crisi climatica e oppressioni. Uno scenario tetro, dunque, che occhieggia alle migliori distopie senza però che vi sia l’effettivo disvelamento.

Abitiamo città con vetrine sempre accese grazie all’estrazione fossile che ha devastato oceani, mari e territori altrove. Alimentiamo industrie distruttive che riempiono i negozi dietro quelle vetrine, grazie alla produzione ultra inquinante che sfrutta soggettività lontane senza potere contrattuale, di prodotti che diventeranno spazzatura invadendo altri territori con il residuo, ciò che finisce nella pila degli invenduti, dei mai indossati o del fuori moda. Raggiungiamo quei negozi con veicoli a motore attivati dagli stessi fluidi per cui sono contesi territori e uccise persone. Respiriamo aria tossica, mangiamo cibo contaminato, uccidiamo vite senza nemmeno averne contezza.

Il tutto nella serenità più assoluta, riscaldati dal tepore delle promesse aziendali che compensano i viaggi di lavoro non necessari con lo stoccaggio di CO2 o la piantumazione di alberi. Una vendita delle indulgenze in piena coerenza con il trend attuale, quello per cui chi è sufficientemente ricco si avvolge nell’ecologismo di facciata perché tanto basta.

Non si tratta solo di non credere alle multinazionali, ma di smettere di credere in un futuro in cui la loro presenza, la salute ambientale, la giustizia climatica e la vita non umana possano coesistere. Quel futuro non può realizzarsi perché è un controsenso, un errore logico che, però, vibra nelle giornate accettato e alimentato da chi, sotto sotto, non vuole che le cose cambino. Eppure, che ci piaccia o no stanno già cambiando, radicalmente. Stando così le cose sarà solo quando le pompe estrattive avranno finito il combustibile per estrarre fossile in un mondo desertificato e senza umanità, quando i barili giaceranno divelti e il petrolio zampillerà a vuoto, che le multinazionali del petrolio smetteranno di funzionare. Dovremmo prevenire uno scenario del genere, dovrebbero farlo i governi. Non fosse per i loro bilanci intrecciati al fossile e per la drammatica presenza di esponenti del settore nelle prossimità, se non sulle poltrone stesse, delle camere decisionali.

Prospettive rosse e un futuro verde, due chimere al momento inesistenti, ma non per questo irrealizzabili. Dovremmo solo iniziare a smettere di credere nelle favole dell’iper produzione e dell’iper consumo e capire come stanno realmente le cose.

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