Culture

Quali sono le statue giuste?

Nel suo nuovo libro Tomaso Montanari analizza il dibattito sulla rimozione o conservazione delle statue che celebrano uomini dal passato spesso non proprio virtuoso, chiedendo di decidere cosa identifichiamo come simboli che meritano di occupare i luoghi di tuttǝ.
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
10 marzo 2024 Aggiornato alle 15:00

Il 7 giugno del 2020 la statua del commerciante di schiavi britannico Edward Colston venne gettata nelle acque del porto di Bristol dai manifestanti in protesta dopo la morte di George Floyd. L’eco dell’impatto dei 2,64 metri di bronzo che cadevano in mare raggiunse ogni angolo del mondo, rialimentando il fuoco del dibattito sulla cancel culture e su quella che la destra conservatrice dipinge come una furia iconoclasta.

E proprio con questo episodio si apre il nuovo saggio di Tomaso Montanari, Le statue giuste (Edizioni Laterza), una riflessione che ribalta il vittimismo feroce di chi vede nell’attacco ai simboli di un passato non proprio edificante un’aggressione alle basi stesse della nostra civiltà. Come se desiderare di abbattere le statue che santificano - perché questo fanno i monumenti posti su un piedistallo nello spazio pubblico - uomini fascisti, schiavisti, colonialisti, criminali di guerra, significasse attaccare i valori in cui la comunità si riconosce. Se così fosse, dovremmo ammettere che i valori in cui ancora oggi ci identifichiamo sono quelli della dittatura, della sopraffazione razziale, della violenza. Ma sicuramente non è così, no?

Dai re di Casa Savoia a gerarchi come Italo Balbo, Rodolfo Graziani, Giuseppe Bottai, dai criminali di guerra al colonialista “predatore” Montanelli, le nostre piazze e le nostre strade sfoggiano - e celebrano - un pantheon di “grandi” di cui si difende il diritto a rimanere come esempi a cui, ancora oggi, dovremmo guardare.

Non si può cancellare la storia, ci dicono. Ma di questo si tratta davvero? Lo spazio pubblico non è un libro di storia né una lezione accademica, ci ricorda Montanari. Non si tratta di eliminare o peggio ancora censurare quello che è successo, né di rinunciare ad analizzarlo, ma di decidere cosa identifichiamo come simboli che meritano di occupare i luoghi di tuttǝ.

Una scelta che non è mai neutrale ma “è invece un atto politico che sceglie un versante della storia, e lo propone alla venerazione di tutta una comunità”. Una comunità che su quelli che vengono proposti come “degni” di essere celebrati pubblicamente si divide. Lo scontro, però, diversamente da quello che vogliono farci credere, non è tra chi vuole spazzare via il passato con un colpo di piccone (o di penna) e chi proteggere il nostro patrimonio culturale. È tra chi vuole che quel patrimonio culturale sia davvero vivo e condiviso e non un semplice monumento alle peggiori pagine della nostra Storia e chi vuole che tutto resti come è sempre stato.

“C’è un’alternativa tra accettare passivamente o distruggere per sempre le statue che, nello spazio pubblico, rendono visibile un pantheon di eroi e di esempi?” È la domanda che attraversa tutto il libro. La risposta è sì, e Montanari ci mostra che può essere fatto, e come. Risemantizzazione in loco, musealizzazione con segnalazione perenne del vuoto rimasto nello spazzo pubblico, musealizzazione con cancellazione della memoria nello spazio pubblico, rimozione e conservazione in deposito o, talvolta, l’inevitabile distruzione: sono solo alcuni dei modi in cui è possibile far dialogare le opere di un passato di cui non possiamo più ignorare le vergogne e un presente che a quel passato continua a guardare, non per celebrarlo ma per creare una società migliore, oggi e nel futuro.

“Non è affatto un movimento d’odio”, come viene dipinto da chi vi si oppone per mantenere lo status quo, “ma di amore per un’umanità senza termini geografici, senza confini nazionali. Un movimento che lotta contro i rapporti di forza e le mentalità coloniali, non per imporre un’astratta grammatica del ‘politicamente corretto’ o del ‘buonismo’ - vacue categorie, la cui creazione e agitazione è funzionale alla conservazione dello stato delle cose - ma per cambiare sostanzialmente una società occidentale che tutto è tranne che corretta, o buona”.

Invece nel racconto mainstream i “buoni” sono quelli che vogliono continuare a tenere sul piedistallo uomini (sì, perché le statue di donne in tutta Italia sono 171 su decine di migliaia) che simboleggiano il peggio di un passato con cui non abbiamo mai voluto fare i conti, che abbiamo cercato di edulcorare, minimizzare e mitizzare sotto il mantra degli “italiani brava gente”.

Un passato che è ogni giorno davanti ai nostri occhi, scolpito nella pietra o nel metallo, ma che non riusciamo più a vedere. Un passato di cui si cancellano gli orrori delle campagne d’Africa, l’apartheid italiano, il trattamento di donne e bambini. Un passato di cui abbiamo nobilitato i conquistatori prima, proprio come abbiamo fatto con gli orrori della dittatura poi. I cui simboli si impongono, potenti e pesanti, sul presente - sia attraverso “survival” (la sopravvivenza di un codice di significati) che “revival” (una “ritorno di fiamma” di simboli più o meno dichiaratamente fascisti) - continuando a schiacciare chi, da quel sistema è già stato schiacciato. E che oggi prende voce.

La domanda che dovremmo porci ogni volta che sentiamo parlare di cancellazione è qual è la vera cancel culture?: quella che per secoli ha invisibilizzato le donne, le minoranze, le persone non bianche o Lgbtaqi+ e che si oppone con violenza a ogni loro tentativo di essere vistǝ e rappresentatǝ o quella che oggi si batte perché lo spazio pubblico sia sede di valori che includano, invece di continuare a creare gerarchie umane?

«Chi manifesta contro quei segni di bronzo e di marmo li ‘vede’ e li ‘sente’ sulla propria pelle molto più fortemente di chi ora li difende dopo averli sempre ignorati» spiega Montanari. Proprio come i “vandali” che imbrattano le opere d’arte per protestare contro il cambiamento climatico e che così facendo riconoscono ai musei «lo statuto di ‘spazio pubblico’ da molto tempo loro negato da politiche di privatizzazione ed esclusione di un’arte altrimenti degradata ad arredo, a passatempo, a gradevole ricreazione».

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