Futuro

Ah, questa sindrome dell’impostore

Fa dubitare di se stessi e credere di essere arrivati “fin lì” solo per fortuna. Ne ha sofferto persino l’ex first lady Michelle Obama e, una volta nella vita, anche l’84% di tutti noi. Ma ora una ricerca del Mit di Boston dimostra che può essere una carta vincente
Valeria Pantani
Valeria Pantani giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
19 marzo 2022 Aggiornato alle 18:30

Ti capita mai di pensare «è stata solo fortuna» dopo aver ricevuto un complimento a lavoro? Dubiti mai delle tue capacità o hai paura di fallire? Se sì, probabilmente soffri della sindrome dell’impostore.

Il termine è stato coniato da Pauline Rose Clance e Suzanne Imes alla fine degli anni ‘70 per indicare un senso di inadeguatezza interiore rispetto alle proprie capacità. Nonostante non rappresenti un disturbo riconosciuto, è possibile rintracciarne alcuni sintomi: tra questi, la paura di essere identificati come impostori e incapaci al lavoro, arrivati fin lì solo per fortuna e non per le proprie competenze. Secondo i dati raccolti dall’Impostor Syndrome Institute, si stima che il 70-84% delle persone l’abbiano sperimentata almeno una volta.

Ma perché ne veniamo colpiti? La psicologa Audrey Ervin ha spiegato che non esiste una risposta univoca: «Alcuni esperti ritengono che abbia a che fare con tratti della personalità, come ansia o nevroticismo, mentre altri si concentrano su cause familiari o comportamentali», ha riportato il Time. Ciò che è certo è che la sindrome dell’impostore può colpire chiunque (uomini, donne, persino l’ex first lady Michelle Obama) e portare a essere dei perfezionisti.

Ma in tutto questo male, un recente studio ha rilevato che la sindrome può portare anche a benefici interpersonali. Dopo aver analizzato il fenomeno all’interno del contesto lavorativo, Basima Tewfik del Massachusetts Institute of Technology (Mit) ha rilevato che tutti gli “impostori” riuscivano a instaurare relazioni interpersonali più significative. «Ho scoperto che i dipendenti che hanno più frequentemente questi pensieri riescono meglio dal punto di vista interpersonale, in quanto puntano a un approccio orientato all’altra persona». Il tutto senza aver conseguenze sul piano lavorativo.

Dalla sua analisi è emerso che i medici affetti dalla sindrome riuscivano a instaurare un rapporto più solido con i pazienti. Come ha spiegato la ricercatrice del Mit al Time, questi annuivano di più e cercavano un contatto visivo diretto con l’altra persona. «Conseguentemente i pazienti pensavano che questi specialisti avessero buone capacità interpersonali, che fossero buoni ascoltatori, che facessero domande migliori e che fossero più empatici».

Tewfik non ha rilevato nei risultati differenze significative tra uomo e donna perché, erroneamente a quanto si pensa, la sindrome dell’impostore non conosce genere. «Uno dei motivi per cui pensiamo che il fenomeno sia di genere è perché lo studio originale [di Clance e Imes] si è concentrato solo sulle donne», ha affermato la ricercatrice. Tuttavia, è stato dimostrato che sono queste (e in particolare le donne Bipoc) a soffrirne di più.

Come ha riportato la Bbc, secondo lo psicoterapeuta Brian Daniel Norton la sindrome dell’impostore è una conseguenza dell’oppressione sistemica che subiscono le donne bianche, Bipoc, nere e la comunità LGBTQ+. Inoltre, non avere una rappresentanza solida all’interno del contesto lavorativo può solo aggravare la situazione: «È più probabile sperimentare la sindrome dell’impostore se non ci sono nel nostro settore esempi di persone di successo che ci somigliano o condividono il nostro background», ha aggiunto Emily Hu, psicologa clinica di Los Angeles. E se per caso non ti fossi mai interrogato sulla tua sindrome, puoi sempre scoprirne di più con il test creato da Clance.

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