Ambiente

Miele italiano: perché il settore è in forte crisi?

Aspromiele Piemonte ha chiesto alla regione interventi urgenti. “Al cambiamento climatico si è aggiunta una cosa inaspettata: […] la nostra produzione ha un costo tra i 6 e i 10 euro al chilo mentre i mieli in arrivo da Asia o America costano 1-2 euro”
Credit: mostafa eissa 

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20 febbraio 2024 Aggiornato alle 07:00

Quasi 75.000 apicoltori professionisti e 1,6 milioni di alveari in tutta Italia, per una produzione di circa 23.000 tonnellate l’anno e 30 tipi diversi di prodotto. Sono i numeri del miele italiano, un prodotto di eccellenza che tuttavia sta affrontando una crisi profonda. I motivi sono due: cambiamento climatico e concorrenza sleale.

Qualche giorno fa, Aspromiele Piemonte ha scritto alla regione per chiedere interventi urgenti per il settore. «Al cambiamento climatico – spiega il coordinatore piemontese Luca Allais – si è aggiunta una cosa inaspettata: producendo meno miele si spera ci sia un mercato, invece no, perché la nostra produzione ha un costo che varia dai 6 ai 10 euro al chilo mentre si trovano mieli in arrivo da Asia o America dove il costo si aggira fra 1 e 2 euro».

Si tratta di miele adulterato, un miscuglio di prodotti da diverse nazioni e altre sostanze, oppure realizzato con metodi talmente diversi da non essere nemmeno tecnicamente miele. Il punto è che, a oggi, non c’è un sistema di controllo in grado di renderlo evidente al consumatore.

«Nel mercato c’è sempre stata una fluttuazione – aggiunge Giorgio Baracani, presidente di Conapi, Consorzio nazionale degli apicoltori – ma stimiamo che quasi il 50% del miele che arriva in Europa risulti contraffatto».

La contrazione dei consumi dovuta all’inflazione impatta sul miele, non considerato dalle famiglie come alimento essenziale, al quale si preferisce un prodotto di qualità più bassa purché economico. Un esempio: il miele millefiori argentino costa all’ingrosso fra 1,60 e 1,80 euro al chilo, in Italia costa intorno ai 4,60 euro (prezzo già in calo del 13% rispetto al 2022).

Stando all’ultimo report dell’Osservatorio Nazionale Miele, che parla di “giacenze consistenti e aziende in difficoltà”, il danno più importante si è verificato nella primavera dello scorso anno.

Per via delle gelate tardive e dell’inverno troppo caldo, le api non hanno trovato nettare a sufficienza.

In molti casi sono state nutrite artificialmente dagli apicoltori per evitare che morissero di fame (una pratica, quella della nutrizione, un tempo rara e oggi sistematica), questo ha portato a un calo sensibile della produzione, a esempio, di miele di acacia (-14% sul 2022), parzialmente recuperato con altre varietà in estate.

In generale la produzione è scesa, passando da quasi 25.000 tonnellate del 2022 a circa 23.000 nel 2023, ma all’apertura del mercato a settembre la domanda non è aumentata, anzi, i consumatori hanno preferito acquistare mieli stranieri a buon prezzo.

Per il terzo anno consecutivo, rileva il report dell’Osservatorio, i consumi continuano a scendere ed è una situazione parzialmente mitigata dall’aumento dei prezzi registrato fino al 2022.

«Rispetto a vent’anni fa – precisa Giancarlo Naldi dell’Osservatorio sul Miele – la produzione è comunque aumentata, ma oggi non riesce a coprire i costi. Il cambiamento climatico incide negativamente con il ripetersi di eventi estremi che oggi rappresentano la regola».

Del resto l’apicoltura, come ricorda Luca Allais, è uno dei primi settori ad aver manifestato gli effetti del cambiamento climatico, già da una decina d’anni. «L’ape è un indicatore pazzesco dello stato dell’ambiente – ribadisce Giorgio Baracani – sebbene si possa adattare. Ora però, rispetto agli anni Ottanta, richiede una presenza costante dell’apicoltore, fra le estati torride e siccitose e la riduzione di pascoli (per le api, ndr) e nettare. Gli inverni poco freddi creano un risveglio anticipato delle piante con il rischio che torni il freddo in primavera e comprometta le fioriture». Come la gelata della primavera scorsa. L’esempio principale è il miele di melata, derivante dalle sostanze zuccherine prodotte da alcuni parassiti delle piante, in particolare la metcalfa. Oggi è quasi sparito, perché la siccità o le piogge troppo abbondanti impediscono agli insetti di proliferare.

«Negli ultimi dieci anni siamo arrivati a una riduzione della produzione fino al 40% – afferma Giuseppe Cefalo, presidente nazionale di Unaapi – per via degli effetti diretti e indiretti del cambiamento climatico. Per esempio con l’avvento di nuovi predatori come la vespa velutina».

Lo scorso autunno, a Torino, è stato trovato il primo nido di questa vespa asiatica, prima diffusa in Francia, poi in Liguria e quindi a Cuneo. È la testimonianza della sua crescita. «Per il 2023 – aggiunge Cefalo – ci aspettiamo in totale un calo di produzione abbastanza contenuto. Abbiamo incontrato il ministro dell’Agricoltura e il sottosegretario con delega all’apicoltura, c’è la voglia di interessarsi ma attendiamo segnali. Ora siamo alla finestra per la direttiva europea Breakfast, che per le miscele di miele prevederebbe l’indicazione di tutti i Paesi di provenienza di ogni elemento. Servono metodologie uniformi in tutti i Paesi membri».

E in Piemonte, regione che da sola ha 230.000 alveari, per la prima volta è stata estesa agli apicoltori la misura H18, che dà un contributo per portare gli alveari in zone utili all’equilibrio dell’ecosistema: delle 500 aziende che hanno partecipato al bando ne sono state finanziate 430.

Aspromiele ha chiesto l’estensione del finanziamento anche alle restanti 70 e, in futuro, un ulteriore allargamento.

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