Culture

Dare la vita, secondo Michela Murgia

La maternità che è cosa ben diversa dalla gravidanza, la famiglia Queer, la Gpa e le domande che comporta. C’è tutto il mondo della scrittrice in questo libro, che ricorda quanto ancora abbiamo bisogno delle sue parole
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
21 gennaio 2024 Aggiornato alle 15:00

“La mia anima non ha mai desiderato generare né gente né libri mansueti, compiacenti, accondiscendenti. Fate casino”. Con queste parole Michela Murgia chiudeva il primo capitolo del suo Dare la vita, uscito per Rizzoli (128 p. 15€) a 5 mesi dalla sua morte. Un libro che, decisamente, mansueto non è. Né compiacente o accondiscendente, che va dritto al cuore di due dei temi più controversi da toccare: la famiglia e la maternità.

Maternità che, ci ricorda Murgia partendo dalla sua esperienza personale di madre di figli d’anima, è qualcosa di diverso dalla gravidanza, a cui però viene troppo spesso ridotta. Mai in “stato interessante” - per usare l’espressione “ipocrita” su cui si apre la riflessione di questo saggio - eppure madre a tutti gli effetti, Murgia parte da sé per raccontarci come è possibile immaginare di costruire relazioni oltre i ruoli, famiglie oltre il sangue.

Di famiglie queer si è molto parlato dopo il servizio fotografico sul matrimonio queer nella casa romana della scrittrice, ma troppo spesso l’unico interrogativo posto, solleticando l’aspetto pruriginoso della vicenda, è stato “ma chi fa sesso con chi?”.

In queste pagine, Murgia risponde invece alle domande giuste, spiegando chi sono queste famiglie che si scelgono e scelgono, deliberatamente, di rompere l’orizzonte unico della famiglia tradizionale - in cui “di tradizionale c’è solo il patriarcato” - per scoprire legami nuovi che vanno al di là del binarismo relazionale, sociale e normativo.

“Non tutto è queer. […] Se non nascono da una esplicita progettualità anti normativa, se non si fondano su una visione non binaria di quel che ci dice il cuore e delle relazioni che ne conseguono, per me non rispondono quando qualcuno prova a chiamarle queer. […] Allargare i confini della normalità però, senza metterli in questione o tantomeno in crisi, è proprio il contrario di ciò che intendo con questa parola, lo ribadisco”.

Famiglie “altre”, per cui Murgia immagina promesse diverse da quelle che legano i rapporti binari: la fedeltà (“un altro nome del possesso”), il per sempre (“non ti lascerò mai” è la promessa “più crudele, arrogante e infelice”), la genitorialità come legame di sangue e la fecondità come unico cardine della maternità.

Un aspetto, questo, che viene sviscerato nella seconda parte del libro, grazie a una riflessione sul tema della gestazione per altrǝ (e non maternità surrogata) che copre oltre 7 anni di pensieri, dall’appello di Se non ora quando contro “l’utero in affitto” alla fine del 2015, fino all’agosto del 2023.

Una sezione che affronta senza paura uno dei più grandi tabù legati alla Gpa: il denaro. Spesso anche chi si dichiara a favore della gestazione per altrǝ ribadisce con fermezza “purché non preveda un compenso economico”.

Eppure, ci mostra Murgia ricordandoci che a essere “prestata” è solo la capacità riproduttiva - perché il figlio rimane, sempre e comunque, inequivocabilmente un dono e nessun prezzo lo trasforma in “merce” - i soldi sono necessari: la gravidanza è un rischio e la donna che sceglie di impegnare tutto il suo corpo, e non solo il suo utero, ha diritto a essere tutelata. Affrontare l’argomento del denaro, regolandolo, è l’unico modo per tutelare chi è più debole, non dimenticando che questa è anche una questione di classe e di chi quel denaro sarà disposto a o in grado di pagare.

È sfruttamento della condizione dell’altrui indigenza? Lo sarà sicuramente se non verrà regolata. E, soprattutto, ci chiede Murgia, non è sfruttamento dell’altrui indigenza pagare donne che lasciano le loro case e lǝ loro figliǝ per venire a fare le badanti nelle nostre case, garantendoci l’emancipazione al prezzo del “tempo migliore della loro vita, quello che non passano con chi amano, nel proprio Paese, a fare altro”. Il problema è sempre la povertà di partenza.

Con lo sguardo lucidissimo che pagina dopo pagina ci fa sentire sempre più orfanǝ, l’autrice non ha paura di sollevare domande scomode - può la donna tirarsi indietro? Si può rifiutare unǝ bambinǝ malatǝ? Possono i genitori obbligare ad abortire? “Nessuno pensa ai bambini?” - e di dare risposte, forse altrettanto scomode ma necessarie.

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