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Michela Murgia: nella mia fine è il mio principio


E una ridefinizione, ritagliata sulla sua persona, del concetto di maestro, declinato al femminile, di cui abbiamo tutte e tutti molto bisogno
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12 agosto 2023 Aggiornato alle 07:00

Un modo per valutare la portata di un’intellettuale potrebbe essere misurarne la diretta influenza sulla nostra vita quotidiana.

La mente, dicono i saggi, è un bravo servitore e un cattivo padrone. Parallelamente gli intellettuali svolgono un servizio per la comunità, non imponendoci che cosa fare o da che parte stare (quello lo fanno i dittatori), ma aiutandoci a interpretare la realtà per poi intraprendere scelte libere e consapevoli.

Michela Murgia è stata anche questo, per molti di noi.

Non solo una persona che ha prodotto così tanta riflessione che non puoi non citarla quando affronti temi politici o sociali; non solo una la cui stessa esistenza ti legittima e ti affianca quando cerchi di trasmettere valori di equità e giustizia; ma anche una persona il cui percorso e i cui pensieri sulla vita e sulla morte ti aiutano a leggere e interpretare meglio la tua stessa vita e anche la tua stessa morte.

Una società che fatica a parlare di menopausa (che è solo un passaggio nella vita delle donne che segna la fine della fertilità e l’inizio di una nuova fase dell’esistenza, spesso molto lunga tra l’altro); che utilizza la parola vecchio come sinonimo di negativo, scartabile, rottamabile, inutile e sgradevole; figuriamoci come possa gestire i temi della malattia e della morte.

Michela Murgia prende queste due questioni, la malattia e la morte imminente che le è stata diagnosticata e ne fa uno strumento per sé stessa prima e poi per tutti di riflessione e di approfondimento sulla vita. Non è a questo che servono le difficoltà, le crisi, gli ostacoli? A comprendere meglio la nostra esistenza, ad amarla di più?

Quando ha parlato del suo tumore Michela Murgia ha respinto il lessico bellico, non ha voluto nominare la battaglia, la guerra, la vittoria e la sconfitta. Ha parlato invece della malattia come parte della sua complessità di essere umano, che non produce solo bellezza e luce e positività. Del resto, ha riferito citando il suo medico, gli organismi monocellulari non producono tumori. Ma un essere in grado di scrivere un romanzo e di imparare il coreano sì. «Anche potendo scegliere tra le due cose - ha detto Murgia -, preferirei giocare col rischio di produrre un errore ma avendo anche tutto il resto, tutta la complessità che c’è».

Mi trovo ad attendere il risultato di una biopsia, e mi rendo conto che uno dei problemi principali che avrei in caso di esito positivo, sarebbe il senso di tradimento del mio corpo, la paura e lo smarrimento scaturiti dall’idea che il mio stesso essere abbia prodotto un errore appunto, che vada verso la distruzione invece che verso la costruzione, si metta contro di me, in una sorta di duello interno.

Questo trovarsi il nemico in casa è forse la cosa che mi spaventa di più. Se siamo noi stessi che lo produciamo e noi stessi che lo alimentiamo, come faremo a combatterlo? La visione di Murgia mi viene in soccorso ricordandomi che non è tanto un tradimento ma un risultato della mia complessità. Che questo non deve dividermi o farmi sentire tradita, ma mi informa di una ricchezza che comprende anche questo.

Produciamo amore, pensiero, libri, dolci, figli, produciamo tecnologia, città, movimenti culturali, opere d’arte possiamo anche produrre malattie. Produrre errori. Non è in contraddizione, messa così sembrerebbe quasi normale.

Come non sentire gratitudine per una persona che riesce ad aiutarci così? E come non definirla maestra?

Tra le tante cose di cui si è occupata c’è il linguaggio. L’importanza delle parole tra le quali la declinazione al femminile delle professioni. E una delle declinazioni che riesce più difficile, è quella della parola maestro. Perché il doppio standard in questo caso è molto radicato e ha consolidato un’idea del maestro declinato al maschile come di un direttore d’orchestra, un compositore, un pittore anziano ed esperto o un artista sommo. Mentre sulla parola maestra è stata impressa l’idea di maestra elementare e basta, spesso ulteriormente sminuita in maestrina, come se il fatto che si tratti di una donna e che si occupi di bambini sia qualcosa che ne rimpicciolisce l’importanza, il peso e perfino le dimensioni. Maestrina.

Il concetto di maestra invece è molto importante per le donne che vogliono guardare avanti con un’idea evolutiva di sé. La maestra, intesa come si intende il termine quando è declinato al maschile, è qualcuno a cui ispirarsi, qualcuno da ascoltare, qualcuno che ci orienta e soprattutto ci aiuta ad ascoltare la nostra maestra interiore e cioè a diventare quello che siamo.

La definizione che in questo momento sento calzare meglio per Michela Murgia, per quello che è stata ed è ancora per me e quello che penso, credo, immagino e spero, sia stata e sarà per molte altre persone è maestra. Non in senso retorico o distante. In un senso immediato e vero.

E neanche in senso eroico e solitario, perché l’eroe solitario è un altro concetto di cui Murgia ci ha insegnato a diffidare. In uno dei suoi libri un po’ meno citati, Noi siamo tempesta, riporta tutta una serie di esempi di creazioni collettive, momenti cioè in cui gruppi di esseri umani uniti sono riusciti a compiere delle imprese. Perché insieme si possono fare cose meravigliose mentre l’idea che a fare, a risolvere, a conseguire un risultato o a vincere sia un eroe solitario schiaccia lui (di solito è un uomo) sotto il peso di questa narrazione e deresponsabilizza tutti gli altri.

Ovvero, non costruisce comunità.

Michela Murgia è stata ed è una maestra che, oltretutto, costruisce comunità.

“La stiamo tutte piangendo, non importa che la conoscessimo di persona oppure no. E la stiamo piangendo insieme. Se non è questa famiglia non so cosa. Teniamoci strette”.

Così questa mattina su Instagram Irene Facheris interpreta uno dei lasciti più grandi di Michela Murgia, il senso della collettività, della comunità, e il senso della famiglia come di una rete di persone unite da qualcosa, indipendentemente dai legami di sangue o di conoscenza diretta, un sentire e un pensare che cammina insieme e che si fa movimento e cambiamento e crescita comune.

Continueremo a camminare insieme come se ci fossi anche tu, anzi ci sarai.

Grazie Michela.

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