Diritti

Harvard, la rettrice Claudine Gay si dimette per antisemitismo e plagio: cos’è successo?

La decisione è arrivata in seguito alle proteste scoppiate nel campus dopo gli attacchi di Hamas e all’accusa di aver copiato materiale nelle sue pubblicazioni senza citare adeguatamente le fonti. La ricostruzione della vicenda passo passo
Credit: EPA/WILL OLIVER
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8 gennaio 2024 Aggiornato alle 09:00

La guerra che infiamma il Medi Oriente ha iniziato a mietere vittime (simboliche) anche fuori dalla Palestina. È il caso di Claudine Gay, ex rettrice di Harvard, costretta alle dimissioni insieme alla collega Elizabeth Magill della University of Pennsylvania in seguito alle accuse di antisemitismo (e nel caso di Gay anche di plagio).

I primi fatti risalgono agli ultimi mesi del 2023: dopo l’attacco di Hamas ai danni dello Stato di Israele del 7 ottobre, nei campus statunitensi sono andate crescendo le tensioni fra fazioni schierate per l’una o per l’altra parte. L’8 ottobre, poi, diversi gruppi studenteschi di Harvard hanno rilasciato un comunicato nel quale dichiaravano Israele l’unico colpevole delle violenze di Hamas. La lettera, poi sconfessata da alcuni dei suoi firmatari, ha attirato l’ira dei conservatori che hanno avviato una campagna diffamatoria contro gli autori e le autrici dello scritto.

Nel frattempo, più di 20 atenei in tutto il Paese sono finiti nel mirino del Dipartimento dell’Istruzione e le amministrazioni universitarie sono state duramente criticate per non aver saputo gestire la situazione e arginare la violenza verbale (in particolare per alcuni slogan antisemiti che sarebbero stati utilizzati dalla parte filopalestinese).

Le indagini del Dipartimento hanno portato a un’interrogazione del Congresso il 5 dicembre durante la quale Gay e Magill sono state ascoltate insieme a Sally Kornbluth, rettrice del Mit di Boston. Incalzata dalla deputata repubblicana Elise Stefanik, fedelissima dell’ex presidente Trump, che le chiedeva se gridare al genocidio degli ebrei violasse le regole dell’ateneo relative a bullismo e aggressione, Gay ha risposto che «dipende dal contesto». Una frase che i commentatori hanno ritenuto tecnicamente corretta dal punto di vista giuridico, ma che è esplosa sui social e nei media, attirando contro di lei accuse di antisemitismo e richieste di dimissioni.

Gay, docente di studi africani e afroamericani, si era insediata come presidente di Harvard (un ruolo che corrisponde solo in parte con quello del rettorato come lo conosciamo in Italia) 6 mesi fa. Figlia di immigrati Haitiani è la prima persona nera e seconda donna a ricoprire il ruolo di punta di quella che è una delle più importanti università degli Stati Uniti. In prima battuta, dopo l’audizione parlamentare che è costata il posto a Magill, Gay aveva ricevuto il sostegno del mondo accademico, sia degli studenti che si sono mobilitati a suo favore, che grazie a una petizione firmata da 400 intellettuali: era riuscita a evitare di dimettersi.

Ma nulla ha potuto di fronte alle accuse di “linguaggio duplicativo” (più comunemente chiamato plagio) emerse a fronte di un’analisi condotta con l’AI della sua tesi di dottorato, e in seguito di 2 articoli pubblicati rispettivamente nel 2001 e nel 2017. Secondo i detrattori, Gay avrebbe infatti utilizzato espressioni e parole di altri studiosi senza correttamente attribuirne l’autorialità.

La parte che continua a sostenere Gay non ha mancato di mettere in luce come le accuse di plagio siano arrivate come un colpo di grazia non appena la rettrice era riuscita a liberarsi a fatica da quelle di antisemitismo, da parte dell’ala della ultraconservatrice capitanata dall’attivista Christopher Rufo e dal miliardario Bill Hackman, simpatizzante di destra e uno dei principali finanziatori di Harvard.

Anche Moira Donegan, dalle colonne del Guardian, punta il dito contro l’ennesimo attacco della destra statunitense al sistema educativo, sostenendo che il plagio non ha niente a che fare con le dimissioni della rettrice.

Non sorprende quindi che lo stesso Rufo abbia accolto le dimissioni di Gay con un tweet di dubbio gusto che recitava “Scalped!” a mo’ di vittoria, e che la deputata Stefanik, a sua volta investita dalla bufera per le sue domande tendenziose durante l’audizione, si sia dichiarata soddisfatta del risultato e, secondo quanto riporta il New York Times, abbia assicurato che continuerà nel suo impegno per «mettere in luce il marcio» delle università statunitensi e abbia commentato le dimissioni di Gay con un caustico «Meno due» sui suoi social.

Volendo per un attimo uscire dalla dinamica polarizzata pro-contro Gay, appare chiaro che il grande perdente di tutta la faccenda sia il sistema di istruzione superiore statunitense. I fatti hanno messo in luce la debolezza delle università private del Paese, troppo dipendenti dai finanziamenti appunto dei privati che, invece di garantire la libertà di espressione e l’autonomia di pensiero di studenti e personale accademico, cercano di imporre la loro linea politica trasformando il terreno dell’ istruzione in un campo di battaglia ideologica.

Le università dovrebbero essere luoghi in cui stimolare il pensiero critico, insegnare a indagare le cause, a guardare i fatti nella loro complessità, accettare che le conclusioni a cui si crede di essere giunti possono rivelarsi fallaci o transitori, rifuggire da prese di posizione ideologiche prediligendo, come ha scritto Gay nella sua lettera di dimissioni, un approccio volto a combattere i pregiudizi e l’odio in ogni sua forma, a creare un ambiente scolastico in cui si rispetta la dignità dell’altro e ci si tratta con compassione, in cui si lascia spazio alla libera espressione e in cui si incoraggia l’indagine scientifica volta alla ricerca della verità.

Una strada nobile, e necessaria, ma non per questo priva di insidie, nota Anthony Scott sul Nyt. “Combattere i pregiudizi può voler dire porre dei limiti alla libera indagine scientifica - scrive - La libertà di espressione non è sempre rispettosa né compassionevole e la ricerca della verità può mettere in ombra tutte le altre cose”.

Per poter adempiere alla sua missione l’istituzione universitaria deve quindi districarsi in questo labirinto di contraddizioni mantenendo equilibrio tra le diverse istanze, lucidità e autonomia di pensiero. Viene da chiedersi se gli atenei statunitensi, così intrappolati nella rete dei giochi economici e politici abbiano questa libertà e questa capacità. Per come è finita la vicenda di Gay, la risposta sembrerebbe essere un no.

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