Ambiente

A Natale non so dove mettermi

Mentre ogni anno si rinnovano i riti collettivi legati alle festività, non si può non pensare a come questi impattino sul Pianeta, e al senso di abitudini spesso forzate
Credit: Cristian Escobar 
Tempo di lettura 8 min lettura
24 dicembre 2023 Aggiornato alle 06:30

È Natale, di nuovo. Come ogni anno. Un altro giro intorno al Sole e ritorniamo qui a quest’inizio che è un po’ una fine, una piccola morte nell’apparente rinascita. Natale non è un giorno, ma un mese intero. Addirittura per alcune persone è un sentimento, per altre un’ambizione, per molte la promessa che ogni anno viene mantenuta. L’unica, su cui fare affidamento.

Si entra nel Natale a piè pari, con un salto deciso già a metà a ottobre, quando i primi panettoni iniziano a invadere i supermercati, seguiti dai calendari dell’avvento. A poche settimane da adesso saranno già belli che sostituiti dalle uova di Pasqua, perché si sa, di tempo da perdere non ce n’è.

Oggi, ora e domani, però, è Natale. Quindi, bisogna fare cose da Natale. A Milano il 7 dicembre si fa l’albero. E che si faccia come si deve, palline, nastri e neve finta se possibile. Ma che albero è senza luci?

Anche la città si addobba, o si lascia addobbare visto che le luminarie possono essere “offerte” alla città, perché se il Natale è eufemismo per qualcosa questa è proprio la pubblicità. Offrire, donare, tutto bellissimo, peccato che siano necessarie piccole traduzioni: prendere spazio, farsi largo, creare legami, creare dipendenze. In un mondo utilitarista, bisogna diffidare anche dei regali. O meglio, bisogna avere la forza di fidarsi oltre misura per potersi godere un dono e crogiolarsi nell’idea che sia davvero un gesto di disinteressata spontaneità.

Regali comprati scivolando nelle vie ricoperte di luci brillanti e festose, l’illusione di essere in un’esplosione di scintille. Perle gialle, che connettono fiocchi, abeti o, in alcuni casi, il prodotto sponsorizzato. Ricordo ancora con orrore e terrore l’anno in cui passai cinque minuti buoni a cercare di interpretare una luminaria in corso Vittorio Emanuele, la cui forma mi era assolutamente estranea. E ci credo, era un asciugacapelli Dyson pubblicizzato a suon di Natale.

Luci, che accendiamo anche dentro casa. Negli angoli in cui spuntano gli alberi, di plastica e metallo, o, peggio, organici. Di legno e foglia, risultato drammatico di un taglio dei rami d’abete che trasforma fronde solide e larghe in versioni tristemente spelacchiate di sé stesse, il tutto per consegnare una natura snaturata in miniatura.

Alberi artificiali, che seguono la forma della moda, perdono aghi di plastica che si infilano un po’ ovunque, che si riducono fino a microscopici frammenti che vanno ad aggiungersi al novero della plastica che beviamo e mangiamo, la cui costruzione produce un dispendio annuo di 17,911 kg di CO2 .

Alberi organici, che hanno un costo di dismissione piccolo, ma mediamente annuale, di circa 7,775 kg di CO2 se inceneriti o di 4,875 se compostati. E dunque via con la corsa al taglio, al frammento di pino vero, che sa di bosco e di sostenibilità. Peccato che poi, alla fine dei conti quello finto, che non sa di niente se non di polvere e plastica e di quanto siamo tristi con le nostre foreste da appartamento, duri di più e quindi sia in grado di spalmare il suo impatto non necessario, mentre i “naturali” finiscano con il creare progressivamente più emissioni di smaltimento per accumulo. Però è Natale e c’è chi ci pensa. Chi si ferma a osservare le lucine con i loro programmi coreografati e pensa “ah, ogni anno tra case e balconi vengono liberate almeno 20 tonnellate di CO2 e fanno aumentare i consumi energetici del 30%!”?

Che ha pure poco senso stare a spegnere la luce, risparmiare quei watt di lucette quando ci sono i colossi bancari che investono seraficamente nell’apocalisse dei gas serra, quando c’è Eni che non smette di trivellare pur avendo contezza dagli anni Sessanta degli effetti del fossile sul clima e quindi sull’abitabilità del Pianeta, quando al caro vita si sommano le impennate di consumo che fanno macinare miliardi alle multinazionali dell’energia svuotando tasche virtualmente già vuote, quando i vertici che dovrebbero far cambiare rotta alle politiche internazionali come la Cop28 si convertono in Expo e tavoli in cui la lobby dell’industria dello sfruttamento animale e quella del fossile fanno a gara di greenwashing, quando i conflitti si propagano si intrecciano, detonano, si sommano e fanno avanzare progetti di genocidio di qualche decennio mentre il resto del mondo si impegna con tutto sé stesso a farne un tema da salotto, con due posizioni opposte pronte ad azzannare l’una la gola dell’altra, per reciderla e gridare vittoria, quando lo stesso salottino squallido lo vediamo scatenarsi sulla morte di comunità, di singole persone e di futuri interi.

Il senso delle cose appare così lontano, balugina, e quindi forse ci fa anche piacere vedere qualcosa definito, controllabile, come quelle lucine così stabili. Stiamo come pacchetti in vetrina, guardiamo quello che c’è fuori, sperando di essere scelti, o fregandocene completamente, impegnati come siamo a fissare dritto davanti a noi senza curarci di ciò che accade a inizio e fine della via. In attesa di non si sa bene cosa, del cenone, dei pacchetti, di essere visti, forse, di essere finalmente guardati dopo essere stati delicatamente scartati, amati per quel nucleo imperfetto e pulsante fatto di pelle, denti e sangue che siamo? No, quella parte così grottesca non la vuole nessuno. Come pure la fatica di superare gli strati accumulati, sovraccaricati dai vestiti della festa.

Abbiamo il Natale, di nuovo, per sotterrare nuovamente amarezze e dolori, per prenderci un piccolo premio di produttività, che denunci che anche quest’anno, a Natale ci siamo arrivati. Sotto l’albero qualcosa l’abbiamo messo. Abbiamo accumulato vita, di nuovo. Per noi, per altr*.

E non è che ne sia immune. Passo l’anno a condensare i pensieri per l* altr*. A prendere regali e a ricordarmi di tenerli fino a Natale. Perché per comunicare bisogna condividere il codice, e questo detta legge: a Natale devi fare un regalo.

La misura d’amore di un mondo di consumi e materia inerte è proprio la porzione di questa che siamo disposti ad acquistare per altre persone. Che soffrirebbero nell’assenza. Perché Natale è la cannella, la bevanda distintiva di Starbucks fatta di latte animale sottratto a vitelli mandati al macello o programmati per diventare anche loro produttrici di latte, il verde e il rosso, l’oro, i pacchetti e la paura di essere dimenticati. Inversa forse, come al solito resa nella sua versione più ottimista dell’aspettare e vedere quanto si è stati amati, che però, in verità, e tra noi possiamo anche dirci la verità, è più la paura di essere stat* rimoss*. Non considerat*, non amat* abbastanza da meritare un dono. Finit* nella lista dei cattiv*. Per me solo carbone vegetale, fatto di zucchero e colorante vegano.

Il mondo là fuori è così pieno di terrori che ci crogioliamo nella nostra piccolissima paura, un po’ per abitudine, un po’ perché dopotutto ci disegnano per essere così, nutrendoci dell’idea che tutto ciò che conta, alla fine di tutto - ancora di più alla fine dell’anno - è quanto abbiamo. Cifre che si sommano e si diradano ci allontanano l* un* dall* alt*. Ci consegnano a una frammentazione identitaria e politica, una specie che si autodefinisce sociale che però si atomizza. Cancella con spruzzate di neve finta un futuro senza neve, rimpolpa di alberi in PVC un domani senza abeti, condensa l’inverno in sensazioni acquistabili in previsione di quel giorno in cui a Natale avremo indosso solo magliette natalizie invece dei più classici, e consumistici, maglioni brutti a maglia.

Rimozioni, perché è Natale e a Natale siamo tutt* più buon* e felic*. Come se la depressione ormai endemica in questo spazio assurdo e imbibito di privilegio che chiamiamo casa ma che geopoliticamente si è imposto a suon di guerra e colonialismi finanziari come Centro del Sistema Mondo, nemmeno fosse contemplabile. Come se davvero il Natale fosse un velo che tutto ammanta e imbelletta. Temiamo di essere scordat* e ci impegniamo a indossare questi occhialini da vetrina con le lenti a forma di Babbo Natale per impegnarci a scordate tutt* l* altr*.

A me il Natale nemmeno piace, si sarà capito. Non so che spazio abitare con questo clima. Non so di che scrivere, perché mi si chiede di sprizzare gioia e vorrei solo urlare che dovremmo fermarci e mettere a lutto anche il Natale. Dichiararlo sospeso e guardare che sta succedendo fuori dal raggio di azione del Realismo Capitalista e cambiare radicalmente tutto. A Natale non so dove mettermi. E ogni anno, mentre lui torna, la speranza muore ancora un po’. Rimane il rito, la celebrazione a scapito di tutto, la ricerca di un salvatore fantasma che non arriverà mai, ma che può contribuire a farci credere che nessun* di noi abbia un ruolo rilevante. Ripetiamo il gesto, la pantomima. Fino alla fine dell’umanità.

Che poi si sa, la plastica permane più dei nostri corpi, quindi consegniamo il Natale alla sua immortalità. Con queste distese di abeti fatti in serie, virtualmente indeperibili - perché ci vorranno secoli perché si degradino fino alle loro componenti essenziali - che staranno eretti o crollati al suolo, ricoperti di palline opacizzate da un sabbia venefica che si fonderà alla neve spray. Sarà Natale per sempre. Che gioia.

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