Diritti

World Aids Day: morte e sesso i peggiori tabù da abbattere

Mattia Mele è uno dei protagonisti della campagna di Control Italia dedicata all’HIV, con cui l’artista convive da 3 anni. In occasione della Giornata mondiale contro l’Aids, ha raccontato a La Svolta quanto poco si conosce l’infezione
Credit: @ilvinodegliamanti_
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 9 min lettura
1 dicembre 2023 Aggiornato alle 16:00

In Italia sono state 1.888 le nuove diagnosi di infezione da HIV nel 2022. L’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità ha registrato un aumento dei casi segnalati del +32% rispetto al 2020. L’Associazione Microbiologi Clinici Italiani la definisce una “pandemia silenziosa”.

Per sensibilizzare, educare su un tema che ancora oggi evoca scenari vicini all’immaginario degli anni ’80 e ’90 (ricordi il film Philadelphia, con Tom Hanks e Denzel Washington?), Control Italia e Together hanno lanciato una nuova campagna in occasione della Giornata mondiale contro l’Aids: 8 appuntamenti al buio, con 12 persone inconsapevoli e 4 complici incaricati di rivelare la propria sieropositività durante lo speed date.

In un’epoca in cui molti ancora non sanno che un trattamento efficace può bloccare la trasmissione del virus ai propri partner, e che il bacio non è una modalità di contagio, un esperimento sociale può aiutare a chiarire le idee.

Uno dei protagonisti dello spot è Mattia Mele, 42 anni. Vive a Torino, lavora in ambito artistico-performativo, ama il mondo dell’intrattenimento. Da poco ha iniziato a confezionare outfit per i propri spettacoli, a creare costumi per esibirsi sul palco. Da 3 anni convive con l’HIV e ha raccontato a La Svolta qual è il suo rapporto con il virus.

Lei come l’ha scoperto?

In maniera fortuita. È accaduto in concomitanza con l’inizio dell’ultima pandemia, quando tutto ciò che non riguardava il Covid subiva enormi rallentamenti. Io credevo di avere tutt’altro, ovvero l’HPV, il papilloma virus. Ho insistito per fare il test delle malattie sessualmente trasmissibili. Con le varie aperture che erano consentite nel 2020, ho ricevuto la diagnosi a ottobre 2020: non solo ero positivo all’HPV, ma anche all’HIV. Se biasimo la mia medico di base per non averlo capito subito? Assolutamente no. Una delle ultime volte in cui mi sono recato nel suo studio, il giorno precedente al primo lockdown, era sommersa dalle chiamate. In ogni caso, sono contento che sia andata così.

Perché?

Mentre eravamo tutti in lockdown, io avevo una situazione di sieropositività non diagnosticata. La “fortuna” di quel periodo ha voluto che io non avessi quasi alcun tipo di contatto sociale, men che meno sessuale. Dalla diagnosi alla prima visita di controllo la mia carica virale era già scesa: seguire la terapia farmacologica quotidiana l’ha abbassata molto in fretta, in circa un mesetto, nel sangue e nell’organismo. Dopo la visita di controllo, nel primo periodo, si fanno degli esami mensili, in cui si monitora il numero dei linfociti CD4, che dev’essere sopra i 200/mcL (a questa cifra il sistema immunitario si considera funzionante), e ci si assicura che il numero di copie di HIV rimanga molto basso: è questo a definire lo status di undetectable e di untransmittible.

Che cosa significa?

Facciamo un passo indietro: l’HIV è un virus, e come tale trova un ospite in cui moltiplicarsi. Una volta entrato nell’organismo, si costituisce nella fabbrica di riproduzione delle cellule dicendo loro di smettere di copiare se stesse, ma di funzionare da incubatrici per le copie del virus. La cellula “scelta” dall’HIV, come dicevo, è la CD4, che fa parte dei globuli bianchi del nostro sistema immunitario. Quando l’HIV è presente nell’organismo, inizia questo processo di riproduzione, e una volta che la cellula si riempie di virus, scoppia. Questo fa sì che diminuiscano le cellule incubatrici, e se il numero di CD4 scende sotto la soglia dei 200/mcL, allora si parla di sindrome da immunodeficienza acquisita: è lo status di AIDS conclamato. In quelle condizioni, il tuo sistema immunitario è fortemente compromesso, e il tuo organismo non è pronto a rispondere a nessuna minaccia.

Spesso, non solo c’è mola confusione tra virus (HIV) e malattia (AIDS), ma si fa fatica a capire che si può vivere con l’HIV: lei ne è l’esempio lampante.

Quando c’è una diagnosi positiva all’HIV, il quantitativo di copie del virus all’interno del nostro organismo è sopra la soglia della rilevabilità. Quando mi è stata comunicata la diagnosi la mia carica virale era pari a 439.000 copie per mL di sangue, che non è poco ma nemmeno tantissimo: il virus può arrivare a milioni di copie per mL. Ma, attenzione: il numero dei miei linfociti CD4 era sopra i 200 mc/L, quindi il virus non aveva ancora fatto così tanto “danno” da mandarmi sotto quella soglia. Il mio sistema immunitario non era compromesso, ma ero infettivo.

E com’è diventato non contagioso?

La terapia farmacologica prevede che mi consegnino una fornitura di almeno 3 mesi per volta di un farmaco anti-retrovirale che fa sì che il virus non sia più in grado di riprodursi. Questo non elimina il virus - ecco perché ci conviviamo - ma gli rende impossibile fare il suo lavoro. A me piace pensare a lui come al drago Smaug de Lo Hobbit, che dorme sotto una montagna di monete d’oro: nel mio caso, però, sono pastiglie. Nel momento in cui smetti di prenderle, il virus ricomincia a fare il suo lavoro: riprodursi e danneggiare il sistema immunitario. Se ti curi, però, puoi vivere tranquillamente come una persona sieronegativa o che non vive con HIV. Mantenere per 6 mesi questo status dà la certezza di non essere più infettivi. E qui arriviamo al concetto di U=U, che sta per Undetectable = Untransmittable. E questo è uno dei concetti più difficili da capire: le persone che vivono con l’HIV con una carica virale non rilevabile (undetectable) non possono trasmettere l’HIV sessualmente (untransmittable).

Pensa che ci sia una lacuna nelle informazioni a riguardo, a livello istituzionale?

Esiste una nutrita letteratura a cura dell’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha raccolto numerose ricerche e spiega in modo preciso la relazione tra undetectable e untrasmittable. Il discorso, secondo me, è diverso: quanto interesse c’è nell’approfondire il tema? Quando ho avuto la diagnosi, mi sono chiesto: “Se racconto questa cosa a una persona, condividendole il mio status, come faccio a essere credibile ai suoi occhi? Anche se le assicuro che quel che dico è oggettivo, verificato, corretto?”. I dati ci sono e sono certificati, poi però spetta alle persone informarsi. Siccome questo virus è legato a due tabù enormi - la morte e il sesso - molte persone non conoscono gli aggiornamenti farmacologici dalle prime diagnosi, quando c’era l’incubo che corrispondessero a una condanna a morte.

Lei ha partecipato a uno Speed Date organizzato da Control, com’è andata?

Mi sono confrontato con una persona che non è cascata dal pero quando la nostra discussione è andata a finire su questo tema. Difficilmente chi viene coinvolto in un esperimento di questo genere scapperebbe via urlando, è da tenere presente, però è stato importante cercare di capire quanto questa persona fosse informata sui vari concetti. Trovo sia intelligente trovare un format di questo tipo per poterne parlare, ma sarebbe ancora più interessante nascondere le telecamere ai partecipanti.

Da quando ha saputo di essere positivo all’HIV, com’è cambiato il rapporto con le altre persone?

Nel mio caso è cambiato poco, perché io sono fatto così: ne ho parlato con tutte le persone che avevo a tiro. Ho raccolto i loro dubbi, che poi erano anche i miei, e li ho riportati ai medici ogni volta che li rivedevo. Esistono anche persone undetectable (quindi non contagiose) che decidono di non dirlo, perché preferiscono non affrontare la cosa. Io ho deciso di rendermi disponibile a condividere la mia storia perché voglio parlarne. Ma ognuno reagisce e agisce come sa e come può. Se c’è una cosa che non mi appartiene, però, è il senso di vergogna. Nel nostro Paese tendiamo a dare credibilità o meno alle persone a seconda di quanto siano caste e pure. A me sembra proprio una sciocchezza, ma ha più a che fare con le generazioni precedenti.

Perché si parla di vergogna quando si tratta di HIV?

Perché riguarda il modo in cui viviamo i rapporti sessuali. È legato a qualcosa di oscuro, di sbagliato. Le prime diagnosi sono avvenute all’interno della comunità gay, i primi ammalati sono stati tutti soggetti maschi, tendenzialmente afroamericani; ə sex worker dell’epoca; le persone che facevano uso di stupefacenti e condividevano le siringhe infette. Categorie che, per la società, stavano già facendo qualcosa di sbagliato: nessuno aveva un grosso interesse a trovare un vaccino o una cura. Quando si è scoperto che il virus non faceva distinzioni tra le preferenze sessuali, qualcosa è cambiato. Il dato attuale mostra che, in alcuni paesi europei, le nuove diagnosi di HIV si registrano tra coppie eterosessuali (in Italia, nel 2022, il 25,1% ha riguardato eterosessuali maschi, il 17,9% eterosessuali femmine. Tra gli uomini e le donne eterosessuali che vivono a Londra le diagnosi sono aumentate del 14% nel 2022, ndr).

Lei ha mai subito discriminazioni per questo?

No. Credo di essere molto fortunato perché vivo in una bolla in cui si parla molto di questi temi, anche grazie al mio lavoro artistico. Nella mia bio, sulle app di incontri, io condivido il mio status: è possibile che questo abbia spaventato alcune persone, altre invece mi hanno investito con la loro ignoranza sul tema. Ma ce ne sono state molte di più che mi hanno accolto in maniera positiva. È successo anche su Instagram, quando ho deciso di fare un video in occasione del terzo compleanno del mio virus.

Oltre a utilizzare il preservativo, come ci si può tutelare?

Prima di tutto, conoscere il proprio status è importante, quindi bisogna farsi il test. Poi, si può ricorrere alla profilassi pre-esposizione (PrEP, che consiste nell’assunzione di farmaci anti-HIV da parte di persone HIV-negative, ndr) che consente di essere protetti ancora prima di un rapporto. La mia terapia funziona anche come PrEP. Chi decide di avere un rapporto sessuale con me, non ha bisogno di fare la PrEP, proprio perché sono undetectable da più di 6 mesi e non posso più contagiare nessuno, anche se il rapporto fosse non protetto.

Alla luce di questo, comunque, siamo tutti ugualmente esposti alle altre malattie sessualmente trasmissibili. E conoscere il proprio status è importante, non solo rispetto al virus dell’HIV, ma anche rispetto a gonorrea, HPV, sifilide, ecc… I virus non fanno distinzioni tra gusti sessuali, colori della pelle o organi genitali. In questi giorni in cui ci si domanda se c’è necessità di inserire il concetto di educazione affettiva e sessuale a scuole, dico che si dovrebbe parlare anche di questi temi. È il momento storico giusto. Se non succede in famiglia, c’è bisogno che i giovani siano obbligati a farlo. Mi piacerebbe andare nei licei a parlarne: credo ci sia bisogno di vedere una persona in carne e ossa che ti dice: “Io convivo con un virus come tanti, il mio sistema immunitario funziona esattamente come il tuo”. Se non si fa così, si avrà sempre l’impressione che si tratta di qualcosa di lontano. Che le persone come me abbiano due teste, le ali e chissà che altro. E invece bisogna capire che facciamo le stesse cose che fanno gli altri, solo prendendo una pastiglia in più.

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