Ambiente

Le radici fanno paura

Nonostante rappresentino la base di una pianta, quando c’è un problema tagliamo rami e foglie: non guardiamo mai alle fondamenta. Sono sempre state lì e metterle in discussione ci spaventa. Come il cambiamento
Credit: cottonbro studio 
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1 dicembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Che paura che fanno le radici. Sono creature di terra e buio, stanno nell’umido all’origine delle cose. Infisse nel terreno, fanno tantissime cose. Assorbono acqua, sali minerali, ancorano, trattengono, trasportano, si relazionano. Sembra che stiano sotto, ma di fatto stanno proprio all’origine della pianta. La trattengono perché possa formarsi, fascicolare il suo sviluppo strato dopo strato. Fino alle foglie, ai pistilli dei fiori. Sono pelose, vegetalissime, sottili o enormi, aggrovigliate, tuberiformi, ramose, fascicolate, aeree o a fittone. Le radici sono la struttura essenziale.

Senza di loro, non c’è molto da fare. Radici, strutture, fondamenta, le componenti di base di qualunque entità, soggetto o costruzione, di qualunque cosa esistente. Sinonimi, metafore, perché no, pure allegorie per rimandare a qualcosa di solido ed essenziale. Fondamentale nel senso più letterale del termine.

Sto guardando questo acero da una ventina di minuti e il suo apparato radicale non smette un secondo di stupirmi. Così, mezzo fuori mezzo dentro, pronto a sostenere un fusto intero e con esso i rami, le foglie. Le samare, quei fruttini a elica che nella mia testa di bambina stavano a metà tra l’insetto e il vegetale, tra un regno e l’altro. E poi anche la vita sull’albero oltre l’albero, le infiorescenze fungine, la vita insecta, quella batterica e quella aracnoidea. Quella che non vedo e non conosco. I tardigradi probabilmente. Un’infinità di vita sostenuta dalle radici.

Radici. Ci servono radici. Mi chiedo, sempre con gli occhi incollati alla corteccia, perché le evitiamo. O meglio, perché non le cerchiamo. Perché rincorriamo frutti sparsi ma poi non siamo disposti a piantarne i semi, attendere i butti della germinazione. Perché non nutriamo il terreno. Perché cerchiamo solo germogli già recisi e polpa di frutta già pronta per entrare nella marcescenza.

Mi dico che, probabilmente, le radici fanno paura. Stanno nel non visto e hanno un ruolo cruciale. Soprattutto, sono solide, durature. Richiedono intenzione e volontà. Sono capaci di adattarsi e mutare, cercano nuovi percorsi con una capacità di intento che lascia sempre più sbigottita la scienza che, diciamolo, vorrebbe crogiolarsi nell’idea che nulla oltre all’umano dia segni di intelligenza. Non l’animale non umano, figurarsi la vita vegetale.

E poi le radici sono tante; diverse e con competenze diversificate. Alcune muoiono, lasciando in eredità all’apparato la loro esistenza, la ragione della loro morte, la traccia in decomposizione del ruolo che hanno svolto. Pronte a ricoprirne un altro, diventare combustibile alimentare per altra vita.

Dunque, abbiamo paura delle cose condivise, delle basi tanto quanto dei nuovi percorsi. Non vogliamo osservare un apparato radicale marcio e incapace di sostenere un albero sofferente. Lo lasciamo lì e nebulizziamo la pianta, ci ficchiamo dentro vitamine e integrazioni, cambiamo l’esposizione al sole. Alloplastici, diamo la colpa all’esterno pure di non cambiare la struttura. Modifichiamo tutto, sperando che tra una toppa e l’altra qualcosa migliori, anche solo l’aspetto delle foglie. Ne innestiamo di nuove, se serve. Succose di clorofilla, ma pronte anch’esse a esser essiccate dalla sofferenza dell’organismo.

Fingiamo che il problema sia un ramo. Lo tagliamo e lo poniamo da parte, nella pila degli scarti, perché di lui non resti nulla se non una brutta cicatrice. Nulla più che un aneddoto da raccontare, una storia andata, che serva da monito e che riempia il tempo. Anzi, peggiore è l’aspetto, più forte la sensazione di rigetto e malessere si prova a guardarla meglio è. Tratterrà l’attenzione, convertirà la preoccupazione diffusa in timore focalizzato. Si cercheranno altri rami e si smetterà di guardare la pianta. Si dimenticheranno le radici.

Dopotutto, sono sempre state lì, quindi qualcosa di buono avranno pur fatto no? E perché cambiare, alla fine sono buone, affidabili, tradizionali. Sono ciò che definisce tutto, quindi perché metterle in discussione? Perché soppiantarle quando possiamo lasciarle marcire ancora un po’. E magari uccidere qualche foglia non conforme al modello acero, qualche ramo un po’ antiestetico, ritorto nel punto sbagliato, quei miceti che non si sa bene da dove siano spuntati, e quei frutti, odiosi frutti. Servono, sennò addio aceri, ma che tedio quando hanno bisogno di una linfa che chi controlla l’organismo non vuole dare loro.

Dare, significa passare, donare e offrire qualcosa, dedicarsi, essere accaduto. Perché sprecarsi quando si può dare la colpa al sole, agli insetti, ai funghi. Ai frutti con le loro pretese, alle foglie che forse potevano anche starsene nel loro ramo e limitarsi a dare energia.

Viviamo circondati da problemi, con chiare origini, ma ci rifiutiamo di considerare che le uniche alternative possibili sono basi differenti. Che sì vanno migliorate le condizioni del terreno, ma soprattutto, servono nuove radici. Nuove basi su cui stratificare un organismo collettivo solido. Sano, nel senso di funzionale, equo per tutte le parti. Per farlo ci servono idee e progetti radicali, nel senso di strutturalmente innovativi e al contempo capaci di radicare una nuova serie di sovrastrutture. Senza cambiare la base della scala, anche con tutti i giri del mondo, i punti di arrivo rimangono inadeguati. Senza cambiare l’ordine degli addendi il risultato è sempre lo stesso.

È per questo che non vogliamo radici, non ne vogliamo di nuove e cerchiamo di screditare ogni idea radicale e profonda. L’organismo è destinato a morire e le sue parti muoiono ogni giorno. Nel silenzio sterile di chi alza la voce solo per sé stessə. Di chi mai vorrebbe fare radici nuove, sennò non avrebbe di che trionfare, con altre parti, soggetti collettivi.

Quello che consola è che spesso le radici reagiscono a ragione propria, spuntano da semi dimenticati e si radicano a profondità solidissime. E non c’è tempesta in grado di alzarle, apparato radicale che si metta in competizione capace di impedire loro di crescere. Perché stanno bene, sono tante, sono nella terra, dove la luce si trasforma, dove l’energia è spazio sociale.

Forse devo smettere di fissare gli alberi.

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