Diritti

I diritti che gli uomini (non) hanno

Un volantino per promuovere l’International Men’s Day all’Università di Bari elenca le discriminazioni ai danni del genere maschile. Vediamo quali sono e quali sono le cause. Spoiler: è sempre il patriarcato
Credit: Vladyslav Tobolenko
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
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26 novembre 2023 Aggiornato alle 09:00

“I diritti che gli uomini non hanno”. A poche ore dal ritrovamento di Giulia Cecchetin, mentre sui social molti uomini si stracciavano le vesti per ribadire che #nonallmen, all’Università di Bari girava un volantino, condiviso su X da un utente che lo ha fotografato, pensato per promuovere l’International Men’s day.

Il 19 novembre, infatti, alcuni Paesi (tra cui, dal 2013, il nostro) celebrano la Giornata internazionale dell’uomo, una ricorrenza non riconosciuta dalle Nazioni Unite né da altre organizzazioni e istituzioni internazionali, ideata nel 1991 da Thomas Oaster, direttore del Missouri Center for Men’s Studies.

I “pilastri” di questa giornata, sono:

- Promuovere modelli maschili positivi;

- Ricordare il contributo positivo dato dalla componente maschile alla società, alla comunità, alla famiglia, al matrimonio, all’infanzia e all’ambiente;

- Promuovere per l’uomo diritti riproduttivi, quali la possibilità di scelta se divenire padre o meno, (detta anche rinuncia legale alla paternità);

- Promuovere l’uguaglianza di genere migliorando le relazioni tra sessi;

- Migliorare la salute e il benessere degli uomini;

- Evidenziare l’esistenza di discriminazioni nei confronti degli uomini;

- Creare un mondo migliore nel quale gli uomini possano crescere al sicuro per raggiungere il loro pieno potenziale;.

- Arginare la dilagante piaga dei suicidi maschili.

Ma quali sarebbero, quindi, questi “diritti che gli uomini non hanno” e che, recita il volantino diffuso all’UniBa, “essi chiedono a gran voce”?

Vediamoli scorrendo gli 11 punti della lista.

1. “Aprire e finanziare, al pari degli altri centri anti violenza per vittime femminili, anche centri anti violenza per vittime maschili”.

A questo si lega il punto 2, che chiede “Campagne contro la violenza sugli uomini”.

È indubbio che anche gli uomini subiscano violenza. E che, se non se ne parla, il motivo è in gran parte legato agli stereotipi patriarcali e maschilisti che vogliono l’uomo forte e intoccabile, certamente non debole e vulnerabile. Soprattutto, però, se si parla di “violenza maschile contro le donne” e di “violenza di genere” intendendo con questo genere il femminile, è perché si tratta di fenomeni di proporzioni incomparabili e, soprattutto, in uno dei due casi di un problema sistemico, che nasce da “relazioni di potere storicamente diseguali tra uomini e donne, relazioni che hanno condotto alla dominazione e alla discriminazione”.

Basta considerare che negli ultimi 11 mesi gli omicidi di donne in ambito familiare/affettivo sono state 82 su 125, più del 65% . Che dei 58 omicidi commessi da partner o ex partner, 53 avevano vittime di genere femminile. Che secondo i dati Istat del 2021 i condannati per omicidi “in contesti relazionali” erano nel 98,3% dei casi uomini, solo nell’1,7% donne.

Se si parla di femminicidio è perché le donne vengono uccise in tutto il mondo, ogni giorno, per il solo fatto di essere donne e di non aderire al ruolo che qualcuno ha cucito per loro. Un fenomeno che non ha un corrispettivo statisticamente rilevante per il genere maschile, mentre oggi contiamo già 106 donne uccise in delitti il cui il loro genere era il movente.

C’è un altro aspetto da considerare: chi si batte per il riconoscimento della violenza contro gli uomini cita spesso i dati della ricerca Istat Le molestie e i ricatti sessuali sul lavoro, secondo cui “si stima che 3 milioni 754.000 uomini le abbiano subite nel corso della loro vita (18,8%), 1 milione 274.000 negli ultimi tre anni (6,4%) (contro i quasi 9 milioni di donne (45%), oltre 3 negli ultimi 3 anni). Quello che dimenticano di dire, però, è che “gli autori delle molestie a sfondo sessuale risultano in larga prevalenza uomini”: non solo nel caso delle donne – sono per il 97% – ma anche per le vittime maschili, in quasi 9 casi su 10 (l’85,4%). I centri antiviolenza per uomini, inoltre, esistono già, anche se non ricevono fondi dallo Stato per la loro operatività.

3. Possibilità di rinunciare alla paternità e al mantenimento, nello stesso modo in cui alla donna è permesso ricorrere all’aborto, prima che il nascituro venga al mondo.

Quando si parla di “figli non voluti dal padre” o di “padri incastrati” da donne che li hanno ingannati, l’orientamento della giurisprudenza riguarda il “principio di auto responsabilità” da parte del padre. “Nell’ipotesi di nascita per fecondazione naturale - spiegava la Corte di Cassazione - la paternità è attribuita come conseguenza giuridica del concepimento, sicché è esclusivamente decisivo l’elemento biologico e, non occorrendo anche una cosciente volontà di procreare, nessuna rilevanza può attribuirsi al “disvolere” del presunto padre, una diversa interpretazione ponendosi in contrasto con l’at. 30 Costituzione, fondato sul principio della responsabilità che necessariamente accompagna ogni comportamento potenzialmente procreativo”.

Proprio nel caso di un uomo che diceva di non avere diritto di scegliere di non essere padre, in un’altra sentenza la Cassazione scriveva che “L’eccezione deve essere disattesa per manifesta infondatezza. […] Invero, le situazioni della madre e del padre, che secondo il ricorrente sarebbero normativamente discriminate con asserita violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., non sono paragonabili, perché l’interesse della donna a interrompere la gravidanza o a rimanere anonima, non può essere assimilato all’interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale”.

4. Possibilità reale di accedere alla paternità in materia di affidamento dei figli superando il criterio della “maternal preference” confermato dalla Corte di cassazione nella sentenza del 14 settembre 2016. n. 18087.

Quello della “maternal preference” è un criterio che si è consolidato nel tempo ma che non è riconosciuto a livello di ordinamento e che, nonostante la sentenza della Corte di cassazione, viene in moltissimi casi ribaltato dalla necessità di garantire la bigenitorialità. Senza dimenticare che, a eccezione dei casi di bambini molto piccoli, il giudice si avvale di figure professionali per capire capire il tipo di rapporto che intrattengono con l’uno e con l’altro genitore prima di prima di collocarli presso la madre o il padre.

Se, però, è ancora cosi diffuso dovremmo partire dal chiederci perché le madri sono considerate “pur sempre apportatrice di una speciale carica affettiva capace di trasmettere senso di protezione e sicurezza, elementi insostituibili, al momento, per garantire alle medesime un corretto e armonico sviluppo psico-fisico” nei confronti dei figli? Forse perché l’unica depositaria del lavoro di cura è sempre stata la donna in virtù del suo “ruolo naturale” e del suo innato istinto materno?

5. Creazione di un osservatorio che faccia emergere le disparita di pene a parità di reato tra uomo e donna.

Diversi studi hanno posto l’attenzione sul fatto che le donne riceverebbero sentenze più miti rispetto agli uomini. Minore possibilità di arresto e di essere portate in tribunale, pene detentive più brevi. Le analisi però, mostrano come molti altri fattori possano influenzare la decisione dei giudici, non ultimi la razza e la località. Secondo uno studio, inoltre, “la percentuale di giudici donne incide sul divario di genere. Quando aumenta, le donne delinquenti ricevono, in media, una condanna più lunga, tempi di libertà vigilata più lunghi e di reclusione sospesi più brevi. Un aumento di una deviazione standard nella percentuale di giudici donne aumenta le pene detentive per le donne di 1,5 giorni (una riduzione del 10% del divario di genere) e libertà vigilata di 1,7 giorni, e diminuisce la pena detentiva sospesa di 1,6 giorni “.

Non dimentichiamo, infine, un aspetto: in Italia, “gli uomini sono responsabili della maggior parte dei comportamenti antisociali: nel 2018 rappresentano l’82,41% dei 500.000 autori di reati per i quali è stata aperta una procedura penale nel corso di un anno, l’85,1% delle persone condannate dalla giustizia, il 92% degli imputati per omicidio, il 98,7% degli autori di stupri, l’83,1% degli autori di incidenti stradali mortali, 1’87% dei responsabili di abusi su minori e il 93,6% degli imputati per pornografia minorile. Sono il 95,5% della popolazione mafiosa, l’87,5% degli imputati per rissa e il 76,1% per furto, sono il 91,7% degli evasori fiscali e 1’89,5% degli usurai, il 93,4% degli spacciatori e il 95,7% della popolazione carceraria”. E che la “virilità” ci costa ogni anno 100 miliardi di euro, 10,2 dei quali solo per le forze di polizia

6. Riconoscimento del diritto di congedo di paternità.

Impossibile non condividere questa battaglia di civiltà, che donne e uomini portano avanti da anni. Peccato che, secondo i dati, anche se i numeri sono in crescita i 10 giorni di congedo “obbligatorio”, usufruibili nei primi 5 mesi della nascita, sono utilizzati da meno di 6 padri su 10 (il 57,60% nel 2021, secondo Save The Children, corrispondenti a 155.845 su un totale di 400.000 nascite. Un dato confermato dal report di WeWorld Papà, non mammo. Riformare i congedi di paternità e parentali per una cultura della condivisione della cura, secondo cui la metà dei padri ha usufruito del congedo, una cifra che sale al 60% per i più giovani. Non solo: se entrambi lavorano, le madri utilizzano il congedo parentale in misura maggiore o esclusiva in 6 casi su 10, i padri in poco più di 1 caso su 10. Senza dimenticar che, ancora oggi, “la quasi totalità delle dimissioni volontarie legate alle esigenze di cura dei figli sia presentata dalle madri (il 97,6% nel caso di quelle legate alla carenza nei servizi di cura e il 93,8% nel caso di ragioni organizzative dell’azienda”.

7. Abolizione della coscrizione militare maschile forzata.

In Italia, la coscrizione obbligatoria è stata sospesa a partire dal 1 gennaio 2005. Questo significa che gli uomini non devono più prestare servizio di leva obbligatorio a eccezione di casi eccezionali: lo stato di guerra o una crisi internazionale che richieda un aumento massivo delle forze armate. Piuttosto che di un’abolizione completa negli ultimi anni si è parlato spesso, soprattutto da destra, di reintrodurla, in particolare in forma di “mini-naja”, in alcuni casi proponendo di estenderla anche alle donne: dal 2000, infatti, le Forze Armate sono aperte anche al personale femminile, che costituiscono il 6% del totale.

8. Multe e/o osteggiamento nei confronti di atteggiamenti sessisti nei confronti degli uomini come l’accesso a servizi con “promozioni speciali” per le donne.

Bisogna capire se per atteggiamenti sessisti nei confronti degli uomini parliamo di politiche istituzionali – come a esempio le quote rosa – o di campagne di marketing – a esempio le scontistiche legate a giornate particolari o i (sempre terribili) accessi in discoteca a prezzi vantaggiosi o gratuiti per le donne. Se parliamo di “promozioni speciali”, non dimentichiamo prima di tutto che molti (come gli accessi nei locali) sono legati a logiche patriarcali, ma soprattutto che le donne ancora continuano a pagare molto di più in tantissimi aspetti della vita: dalla salute ai prodotti mestruali, passando per la “pink tax” sui prodotti femminili, che vale il 7% a livello globale.

9. Campagne di prevenzione al suicidio e abbandono scolastico che colpiscono in larga parte uomini.

C’è una sproporzione di genere nel numero dei suicidi: l’80% delle persone che si tolgono la vita in Italia è maschio. Questo, però, è in gran parte legato alle aspettative patriarcali di genere e alle enormi difficoltà di fronte all’incapacità di soddisfarle. Un fattore è collegato alla sottodiagnosi della depressione nella popolazione maschile, sia a causa di bias culturale sia per un fenomeno di mascheramento sociale che impedisce di riconoscere la malattia negli uomini. Non solo siamo meno capaci di individuarla, ma non insegnano abbastanza ai ragazzi che va bene chiedere aiuto e che non rende deboli o meno virili, né insegniamo loro che provare emozioni, ed esprimerle, è normale e sano.

Anche l’abbandono scolastico è un fenomeno prevalentemente maschile, ma anche in questo caso a fare la differenza – oltre alle differenze regionali e socioculturali – sembrano essere i ruoli di genere, che fin da piccole educano le ragazze alla diligenza, all’obbedienza, a essere “brave bambine” e a fare quello che viene detto loro, condannando eventuali irrequietezze o atteggiamenti ritenuti inappropriati. Per questo, hanno percorsi scolastici migliori a livello globale: in oltre il 70 per cento dei Paesi le ragazze ottengono prestazioni migliori dei maschi. Tra i fattori che aumentano il rischio di abbandono scolastico, i principali sono gli insuccessi, specie le bocciature plurime, e il disagio per un clima educativo-relazionale non favorevole.

10. Campagne che si pongono l’obiettivo di ridurre il divario tra uomini e donne riguardo la salute e l’aspettativa di vita a favore delle donne (ad esempio campagne contro il carcinoma alla prostata o contro l’atrofia muscolare spinale e bulbare anche detta Malattia di Kennedy).

L’importanza di campagne dedicate alla prevenzione delle malattie che possono avere esiti fatali è sacrosanta. Questa, però, non deve passare attraverso il messaggio che si investa a favore della salute della donna a discapito di quella maschile. Se è vero che le donne in media vivono di più, ormai sappiamo che si ammalano anche di più. Non solo: moltissimi studi hanno mostrato gli effetti dei bias di genere in medicina. Caroline Criado Perez lo ha fatto in Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano (Mondadori, 472 p, 19,50€), sottolineando che in campo medico ignorare la specifica del corpo femminile si trasforma in una sottovalutazione, quando non in una cancellazione, dei modi in cui le patologie si presentano in maniera diversa. Un esempio? Le donne hanno il 59% di probabilità in più di ricevere una diagnosi sbagliata di infarto, perché i sintomi di alcuni tipi di problemi cardiaci si manifestano in modo diverso rispetto al classico dolore toracico. “La sanità - ha scritto Marieke Bigg - discrimina sistematicamente le donne: non le comprende, non le cura, non diagnostica loro le malattie”.

11. Campagne e azioni volte a contrastare le morti sul lavoro (a maggioranza di uomini), a prevenire incidenti e a garantire assistenza psicologica gratuita dopo l’infortunio.

Il contrasto alle morti sul lavoro, una vera e propria strage che costa la vita a centinaia di persone ogni anno (già oltre 700 nel 2023) dovrebbe essere una delle priorità delle istituzioni e della società. È vero che le donne rappresentano una percentuale minore delle vittime di infortuni professionali: questo, però, riflette la situazione dell’occupazione femminile, non omogenea e concentrata in particolari settori. Le importanti differenze in termini di rappresentanza in alcune professioni – ancora considerate esclusivamente maschili – si ripercuote sulle percentuali di morti e infortuni. Per questo, la lotta che dobbiamo fare, insieme, non ha genere.

“Per una società, per una cultura, per un’istruzione, per una formazione all’insegna dell’antisessismo e contro qualunque discriminazione e violenza oltre il genere”, conclude il volantino. Gli stessi obiettivi che si pone – per donne e uomini – chi si batte contro la cultura e il sistema patriarcale che ci ingabbia tutte e tutti e che, come abbiamo visto, è alla base di quelle discriminazioni che gli uomini denunciano.

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