Culture

Perché ci piace tanto la retromania?

Rispolveriamo dagli scaffali libri giapponesi iyashi-kei shōsetsu degli anni ‘90 e dagli armadi abiti vintage, per fuggire in un’epoca passata. Anche le mode sono capaci di riflettere la nostra (s)fiducia nel futuro
Credit: Mick Haupt
Tempo di lettura 5 min lettura
17 novembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Di moda non ne so proprio nulla. E forse è opportuno dirlo qui, in testa all’articolo. Perché non si pensi che abbia gusto, che conosca gli stili o che ne abbia uno in particolare. Mi rotolo nell’armadio e meno scelta ho meglio sto. C’è solo una cosa che so, ovvero che la moda può essere un indicatore economico. Non tanto perché viene usata come espressione di classe, come sfoggio del proprio status sociale da parte delle èlite: questo è un uso individuale degli status symbol, tra cui rientra anche la moda del lusso sintomatico di un meccanismo di accumulo e del bisogno di mostrarlo perché sia riconosciuto, realizzando perciò anche una funzione sociale.

Mi riferisco invece alla moda intesa proprio nella sua accezione più statistica; a quel gusto particolare condiviso da una comunità sociale, situato in un momento specifico. Questa moda, racconta molte cose in base alla forma e alle espressioni che assume. Per esempio, ora vanno di moda alcuni genere letterari, primo fra tutti la letteratura di guarigione iyashi-kei shōsetsu giapponese. Che detta così sembra una cosa astrusa, altro che una tendenza. E invece ti basterà entrare in una qualsiasi libreria della grande distribuzione per scoprire che no, è ovunque e con una frequenza quasi continua.

Caffè che salvano la vita, librerie che le danno un senso, libri che salvano persone, gatti che salvano libri, libri che salvano gatti caduti in un caffè, persino caramelle al limone dal potere salvifico, si affacciano dalle testate e promettono una sola cosa a chi leggerà: una serena conciliazione. Sollievo e pacato ottimismo. Niente di estroso, niente di emotivamente sconvolgente. Quello che sconvolge, o che dovrebbe, è che questi best seller sono rispolverati dagli anni ‘90 del Giappone o dalla tradizione letteraria che sbocciò a compendio di una crisi economica feroce e di una depressione tanto economica quanto sociale.

E non sorprende nemmeno pensare che la letteratura, in quel momento, abbia pensato di mettere un piccolo cerotto decorato a fiorellini su ferite che non solo non sarebbero mai guarite, ma che avrebbero suppurato portando alla marcescenza dell’arto.

Ora, questi libri vanno forte. Sono piccoli idilli. Frammenti di gioia facile, semplice. Vendibile. Al punto che non si tratta più solo di titoli che rimestano nelle tazzine di caffè giapponesi, ma che arrivano da tutto il resto del mondo. L’unica regola è che siano debolmente malinconici all’inizio e che, con l’aiuto di un comune oggetto improvvisamente magico o di un aiutante non umano, portino a un lieve sollevamento d’umore. Meglio se farciti con qualche massima sul senso della vita che sta proprio in quell’oggetto banale o nell’amicizia di turno. Le commissioni, però non si fermano qui. Ora non bastano le proprietà curative di una letteratura pensata ad hoc, serve un Paese intero.

E visto che abbiamo una lunga tradizione di esotizzazione, non ci abbiamo messo molto a usare il Giappone stesso come espediente narrativo per curarci le ferite. Quasi nessuno del milione di lettori del best seller “caffègattolibrocaramella” sembra aver realizzato la morte di Shinzo Abe, ma tutti si professano amanti e sognatori del Giappone. Che non è un crimine, anzi, ma un sintomo. La domanda non è “ma tu lo sai cosa succede in Giappone?”, bensì : “perché ci stiamo abbeverando a una riserva di palliativo che siamo andati a recuperare dall’altra parte del mondo?”.

Torniamo alla moda. Magari avvicinandoci a una sua espressione molto più immediata: i vestiti. Ecco, anni fa la persona con cui divido la vita mi ha spiegato che l’abbigliamento riflette lo stato dell’economia a piramidi inverse. Se la silhouette forma una piramide la cui base va verso l’alto siamo in un periodo di boom, se la piramide si inverte siamo in recessione.

Anni ‘80: spalline imbottite e leggings; anni ‘90 pantaloni larghi e top attillati. Anni ‘80: vita alta e pantaloni stretti; anni ‘90: vita bassa e pantaloni larghi. Dalla regia (ovvero la mia amica che di moda ne capisce) mi avvisano che sta tornando la vita bassa. E con lei i pantaloni larghi. Ma questa volta non sono soli. Tutto è lasco, abbondante. I corpi svaniscono nei volumi di stoffa. Avvolti da strati di tessuto abbondante, quasi una membrana protettiva. Abbiamo ripescato gli anni ‘90, li abbiamo mixati con i primi 2000 e ci abbiamo messo sopra le giacche degli ‘80, il tutto leggendo libri che dovrebbero rasserenarci mentre guardiamo compulsivamente serie che definirle retromanie è pure poco.

La moda si è come gonfiata (con le dovute eccezioni e subculture ovviamente) in risposta a un vuoto che sappiamo di non poter riempire. E allora ci mettiamo tutto, vestiti, strati, acquisti compulsivi, libri tutti uguali, ricordi di un passato non nostro. Ripetiamo all’infinito per rimuovere la realtà. Quella di un’economia sbrindellata che si erge su sfruttamento e precarietà, quella di una società troppo affaccendata per prendersi la briga di tutelare chi la abita e un ambiente avvilito, disfatto, perturbato dall’azione umana e sempre più prossimo al punto di non ritorno.

Nella crisi, invece, di guardare in faccia la voragine, cerchiamo di coprirla di cose, di occluderla con una toppa gigante. Prendiamo pezzi qua e là nella speranza che facendo domande già fatte arrivino risposte diverse. Quello che viviamo è il futuro di quegli anni che rivanghiamo e che cerchiamo di connettere al nostro presente. Innesti che vengono immediatamente rigettati. E allora cerchiamo l’oblio. Se c’è qualcosa che va di moda oggi, è la rimozione.

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