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Industria musicale: il 73,9% ha subito discriminazioni di genere

Nel novembre 2021, Equaly ha lanciato un questionario per indagare le discriminazioni subite dalle donne nel music business. La Svolta ne ha parlato con Rebecca Paraciani, che ha collaborato alla ricerca
Rebecca Paraciani, dottoressa in Sociologia del Lavoro che ha collaborato alla ricerca di <i>Equaly</i>
Rebecca Paraciani, dottoressa in Sociologia del Lavoro che ha collaborato alla ricerca di Equaly
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 9 min lettura
18 ottobre 2023 Aggiornato alle 15:00

«Molto belle le demo, le hai fatte tutte da sola?», oppure: «Ma è tutta tua la strumentazione? Ma la monti da sola?». E ancora: «Quindi con il cache ci possiamo venire incontro? Magari con un’uscita». Queste sono solo alcune delle frasi che le lavoratrici dell’industria musicale si sentono dire quotidianamente. Per non parlare delle minacce, degli insulti e delle molestie sessuali che subiscono da colleghi, superiori e subordinati.

Per indagare il fenomeno della violenza di genere nell’industria musicale, il 25 novembre 2021 Equaly, la prima realtà italiana che si occupa di parità di genere all’interno del music business, ha lanciato un questionario. Una serie di domande in forma anonima a cui hanno risposto 153 lavoratrici, raccontando quel che accade dietro le quinte. O sui palchi. Davanti ai microfoni. O in fondo alla sala, vicino alla consolle.

I primi risultati mostrano che l’83% si è sentita discriminata almeno una volta. Il 73,9% sostiene di aver subito discriminazioni sulla base del genere. Il 35,3% del campione ha subito violenze di tipo psicologico, il 9,8% di tipo economico e l’1,4% di tipo fisico. Il 21,6% dichiara di aver subito più di un tipo di violenza. Che cosa ci dicono queste cifre?

La Svolta ne ha parlato con la dottoressa in Sociologia del lavoro Rebecca Paraciani, che ha collaborato alla realizzazione del rapporto di ricerca di Equaly sulla violenza e le molestie contro le lavoratrici della musica.

Come ha conosciuto la realtà di Equaly?

Faccio parte di una band composta da 6 persone, in cui io sono voce e scrittura. Ci chiamiamo La Para e io sono l’unica donna. Durante l’organizzazione delle serate in cui ci esibivamo, mi sono accorta di non essere l’interlocutrice di riferimento, di non essere considerata al pari dei ragazzi che suonano con me. Così ho iniziato a condurre una ricerca sulle donne che fanno mestieri considerati “da uomini” all’interno dell’industria musicale e ho intervistato tecniche e ingegnere del suono, tecniche luci, manager, booking, e chiunque svolgesse lavori a prevalenza maschile in quest’ambito. È così che ho conosciuto Sara Colantonio, Francesca Barone e Irene Tiberi, che sono alcune delle co-founder di Equaly.

Come avete realizzato il questionario?

Abbiamo cercato di operazionalizzare il concetto di violenza e di molestia, prendendo spunto da svariate indagini, anche Istat, condotte all’interno dei luoghi di lavoro. Volevamo adattare quegli strumenti al mondo della musica (un modo che già fatica di per sé a considerarsi lavorativo), cioè adattare le situazioni descritte e pensate per un ufficio a una situazione come il live, per esempio.

Com’è strutturato il questionario?

Nella prima parte, oltre ai dati socio anagrafici, nel rispetto dell’anonimato di tutte le partecipanti, abbiamo chiesto di specificare i percorsi di studio, i titoli, e il ruolo ricoperto: mi sembrava importante cercare di capire quali sono gli impieghi e le mansioni all’interno del contesto musicale e, soprattutto, far capire che lavorare nella musica non è necessariamente un hobby, anzi, servono professionalità e competenze. Abbiamo chiesto anche altre caratteristiche relative al lavoro: la sede, il tipo di contratto, se si tratta dell’unico impiego svolto. Poi abbiamo domandato se, durante il lavoro, abbiano mai assistito o subito comportamenti violenti o discriminatori, interrogando le lavoratrici del settore sulla percezione del fenomeno. L’ultimissima parte prevede delle domande aperte e facoltative, in cui le donne intervistate hanno potuto raccontare un episodio in cui si sono sentite discriminate o pensano di aver subito un comportamento violento.

In quante hanno risposto a queste domande facoltative?

Circa 104 su 153. Alcune hanno dato più di una risposta, che abbiamo poi conteggiato e analizzato singolarmente, anche se della stessa lavoratrice. Tra i risultati interessanti emerge che, nonostante il 16,9% del campione dichiari di non avere mai subito discriminazioni durante lo svolgimento della propria attività lavorativa e il 22,9% di non avere mai subito comportamenti violenti, solo il 2% del campione dice di non aver mai subito nessuno dei comportamenti discriminatori e violenti elencati nell’ultima parte del questionario.

Che cosa è emerso dai loro racconti?

Le narrative sono state riportate tutte e interamente nel report perché sono molto inquietanti. La cosa che mi ha fatto riflettere è che si tratta di scene quotidiane, quasi nessuna mi ha stupita. Leggerle tutte insieme mi ha fatto molto effetto: tutte risultano violente. In alcuni casi si tratta di violenze fisiche, nella maggior parte di violenze psicologiche: umiliate a lavoro, de-mansionate o trattate in modo diverso, ricattate. Un’altra cosa che emerge è la costante allusione al corpo: se sei lì è perché sei bella o perché hai utilizzato il tuo corpo. Se tu sei disposta a darmi il tuo corpo, io sono disposto a farti un favore. Si tratta anche di frasi dette a mo’ di battuta, scherzosamente.

C’è anche un problema di definizioni?

È assolutamente necessario capire che cosa sia una violenza, perché non si tratta necessariamente di qualcosa di fisico o sessuale. Anche essere sminuita è una violenza, lo è anche essere messa da parte, non essere considerata all’altezza di colleghi uomini anche meno competenti nella stessa posizione (questa è una storia ricorrente, tra l’altro, tra le narrative). La cosa che più mi ha colpita tra i risultati del questionario è stata questa differenza tra il percepito e il vissuto: io credo di non aver mai subito una discriminazione sul posto di lavoro, poi però i colleghi mi chiedono se ho le mestruazioni, oppure durante i colloqui mi vengono poste domande sulle mie scelte di vita privata. Tutti questi comportamenti sono discriminatori. Un uomo non si sentirà mai dire certe cose.

Secondo lei perché si fa fatica a riconoscere una violenza?

C’è una tendenza, nel mondo della musica e non solo, a legittimare lo scherzo e la battuta, a dire certe cose con molta leggerezza, senza considerare anche il contesto in cui le si dice. Questo è molto più evidente e comune nel mondo della musica, che è un contesto lavorativo in cui è più difficile delimitare i confini del formale e dell’informale, soprattutto nei contesti serali del live e del mondo notturno. Non dico che abbiano un peso diverso, ma che è molto più difficile capire anche dove porre dei limiti e che limiti porre. Nel mondo della musica non c’è quasi mai un ufficio o un piano diverso per delimitare le gerarchie. Se si si iniziassero a creare dei ruoli lavorativi, e con loro dei contratti e delle tutele, questo aiuterebbe a sensibilizzare e anche a vedere il fenomeno. Con tutto che è difficilissimo, in tutti i contesti possibili, individuare una molestia, capire come agire e denunciarla, al di fuori della musica ci sono spesso dei contratti lavorativi che possono offrire degli strumenti di protezione. Nel music business questo non esiste.

Crede che il quadro normativo sulle molestie sul posto di lavoro sia sufficiente?

Il quadro normativo lascia, come ogni quadro normativo, molto spazio alla discrezionalità. Se parliamo di molestie, è molto importante la percezione di chi la subisce: nella definizione giuridica, una molestia è tale quando “la vittima” si sente offesa, umiliata, denigrata. Secondo me, più che intervenire da un punto di vista normativo, o solo normativo, bisognerebbe cercare di sensibilizzare, educare e tutelare. Perché devo rischiare di non lavorare più, di perdere opportunità di carriera, di avere una cattiva reputazione per qualcosa che si basa così tanto sulla mia percezione?

Dal questionario emerge che molte delle intervistate sono lavoratrici precarie. La violenza passa anche da qui?

Oltre a essere precario, chi subisce una violenza si trova spesso in una situazione subordinata rispetto a chi l’ha perpetrata. Quindi, decisamente sì. Tra le intervistate, solamente il 3,8% lavora con persone subordinate. Il 38,5% con un superiore, il 57,7% con persone di pari livello lavorativo. La maggior parte, poi, è “altamente precaria”: solo il 6,5% ha un contratto a tempo indeterminato. La condizione di precariato, soprattutto se parliamo di una collaborazione occasionale a tempo determinato, di un tirocinio e simili, rende le persone più ricattabili, perché si sentono più facilmente sostituibili.

Nell’industria musicale c’è qualche settore che è particolarmente “soggetto” alle violenze?

Dal questionario sembra che il fenomeno sia abbastanza equi distribuito. Quel che è emerso è che, quando una lavoratrice occupa una posizione “da maschio”, quindi, per esempio, ruoli tecnici, è più probabile che la sua competenza venga messa in discussione. Il nostro campione è composto al 30,7% da artiste e al 35,2% da lavoratrici che si occupano di ufficio stampa, social media e organizzazione eventi. Lavori considerati “da donna”. Chi svolge mansioni di tipo tecnico è solamente il 5,7% delle partecipanti. Le donne spesso si sono trovate a dire: «Sono più competente, ma devo lavorare 1.000 ore di più»; oppure: «Devo sempre dimostrare che sono qui perché me lo merito». O ancora: «Devo spiegare sempre che sono io la tecnica e non la barista».

Secondo lei sarebbe utile sottoporre un questionario simile agli uomini per testare quanto alcuni atteggiamenti vengano sottovalutati?

Questa nostra ricerca ha due limiti. Il primo è numerico geografico: 153 questionari sono tanti, ma non rappresentano tutte le lavoratrici del settore. Inoltre, i questionari sono stati distribuiti attraverso il circuito di Equaly, quindi le risposte arrivano soprattutto dal Nord Italia. E poi, appunto, hanno coinvolto esclusivamente le donne: è stata una scelta precisa, ma credo che in futuro sarà utile ampliare la ricerca ai lavoratori. Il rischio è che, escludendo la parte maschile, se ne parli solo tra di noi. E invece c’è bisogno di interpellare di più l’altro e di far capire che si tratta di un problema culturale, che solo insieme potremo cambiare le cose. I membri della mia band, per esempio, erano gli unici maschi in sala all’evento di presentazione dei risultati preliminari che abbiamo fatto a Bologna. Anche loro hanno notato atteggiamenti violenti nei confronti di altre colleghe, o persino nei miei. E sono diventati alleati preziosi.

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