Abbiamo bisogno delle quote rosa nella musica?

Febbraio non è sinonimo di musica solo in Italia, dove più che il Natale si aspetta la “Settimana Santa” dal 7 all’11 febbraio. Proprio in contemporanea alla finale di Sanremo, infatti, nel Regno Unito saranno di scena i Brits Awards 2023, i premi della musica britannica.
Manca ancora un mese ma – come per Sanremo, del resto – l’evento fa già discutere. Giovedì 12 sono uscite le nomination per le varie categorie, tra cui miglior artista e miglior artista internazionale che, per il secondo anno, sono neutri rispetto al genere, una mossa introdotta per rendere i premi “il più inclusivi possibile”. Peccato che, di neutro quest’anno le nomination abbiano ben poco: se lo scorso anno aveva visto trionfare Adele, quest’anno nessuna interprete ha trovato spazio tra i 5 papabili candidati. Esatto: nella rosa tra cui verrà eletto lǝ miglior artista inglese non ci sono cantanti donne. A contendersi il premio saranno Central Cee, Fred Again, George Ezra, Harry Styles e Stormzy.
Senza mettere in dubbio il talento e l’innegabile merito di questi artisti, la domanda sorge spontanea: veramente non c’era nessuna cantante che meritasse almeno un posto in lista? “Che ne dite della recente vincitrice del Mercury Prize Little Simz, Self Esteem, Florence & The Machine o Charli XCX, solo per citarne alcune?” ha chiesto provocatoriamente il sito britannico Stylist.
Le cose non vanno molto meglio nemmeno nelle nomination per il miglior album – in cui figura in lista solo Wet Leg – ma, senza entrare nel merito delle singole categorie, il #tuttimaschi di quella di spicco non può che aprire (o, meglio, riaprire) la riflessione sulla parità di genere e su come ancora nella nostra società troppo spesso “neutro” si traduca in “maschio”.
Che il mondo della musica – e, più in generale, quello della cultura – abbia un problema di gender gap non è, purtroppo, una novità. Eppure, vedere quella lista con soli nomi di uomini ne è una dimostrazione quasi plastica. Ci si chiede spesso se le quote rosa in politica siano necessarie. E se lo fossero anche nell’arte?
È veramente solo una questione di merito? Si dice che non ha senso imporre dall’altro la parità di genere, perché così si permetterà ai migliori talenti di conquistare la vetta, come se dopo la mano invisibile del mercato arrivasse la mano invisibile della “meritocrazia” a portare in alto chi ne ha diritto. Ma è davvero così? I cinque – indubbiamente meritevolissimi – candidati erano davvero migliori di tutte le loro colleghe donne o di tuttǝ lǝ cantantǝ non binarǝ?
O, forse, quando pensiamo al neutro non riusciamo a uscire da quella trappola mentale per cui, come scriveva Sveva Maragaggia in Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale, “l’uomo bianco, eterosessuale e normodotato è il significante assoluto del pieno e libero soggetto sociale. Lui si pensa ed è pensato come «prototipo unico della specie umana»”?
Quella stessa trappola mentale che impedisce di vedere come ancora troppo spesso gli ospiti dei programmi tv, i partecipanti ai panel (o, come sono stati ribatezzati con un felice neologismo, manel), le firme di punta dei giornali, i presentatori degli eventi più importanti siano, ancora, #tuttimaschi?
O, ancora, quando parliamo di merito possiamo ignorare quanto il genere sia ancora un elemento capace di influenzare le possibilità di successo? Sarebbe bello credere che partiamo tutti dallo stesso livello e abbiamo le stesse possibilità, ma sappiamo bene che non è così. Che diverse condizioni di partenza danno risultati profondamente diversi. Per guardare solo al mondo della musica inglese, come rivelato da Music Business Worldwide, la differenza di stipendio tra artisti a seconda del genere non è residuale: nel 2017 le donne erano pagate mediamente il 33,8% in meno, il 29,8% alla Universal, il 22,7% alla Sony e il 49% alla Warner.
Ma anche le donne che lavorano nel settore delle etichette musicali sono molto poche: in Universal le dipendenti sono il 30%, in Sony il 36.7% e in Warner il 26%. Le donne rappresentano anche una sparuta minoranza ai festival: secondo uno studio del network femminista musicale Female:Pressure, le artiste donne nel 2017 rappresentavano solo il 15,7% dei nomi in cartellone nella maggior parte dei maggiori festival alternativi.
È una domanda che non ha una risposta facile, come sempre quando si parla di parità e quote rosa. Ma è necessaria. Le donne non sono una minoranza – già nel 2021 erano il 65% della popolazione over 65 e si prevede che nel 2050 raggiungeremo la parità demografica – e le persone queer, non binarie e gender fluid esistono, sia che siamo pronti a mettere in discussione il binarismo che permea la nostra cultura sia che non lo siamo. Lo diciamo da tempo: it’s time. Ora dobbiamo capire che lo è davvero.
