Diritti

Emirati Arabi Uniti: le lavoratrici domestiche denunciano abusi

Secondo l’inchiesta del Guardian, le agenzie di reclutamento picchiano e vendono le donne ai datori di lavoro, negando loro cibo finché non trovano un’occupazione
Credit: Ron Lach
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
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12 ottobre 2023 Aggiornato alle 16:00

Detenute, maltrattate e private di cibo e documenti. Le donne in cerca di un’occupazione che vengono assunte come collaboratrici domestiche negli Emirati Arabi Uniti hanno mosso accuse scioccanti nei confronti delle agenzie di reclutamento che le assumono attraverso app e piattaforme online. In un’inchiesta del Guardian, 14 donne dell’Africa orientale e delle Filippine hanno raccontato di essere state tenute imprigionate in alloggi squallidi, in un processo che può richiedere anche mesi e mesi, in cui spesso le lavoratrici vengono restituite alle agenzie. Secondo un esperto, ci sarebbero prove che dimostrano come questo metodo ricordi la schiavitù.

«Nel momento in cui siamo atterrati [il personale dell’agenzia] ha preso i nostri passaporti. Poi siamo andati in questa casa. In una stanzetta dormivamo in 8 o 9. Non era consentito usare i cellulari - ha raccontato una delle intervistate, di origine filippina, reclutata da un’agenzia nell’emirato di Ajman - Rimaniamo insieme sul pavimento finché qualcuno non ci compra». Lei e le altre donne sono state assunte per lavorare negli Emirati Arabi Uniti nei loro Paesi d’origine, alcune attraverso membri delle loro comunità che fungevano da intermediari e altri rispondendo ad annunci su Facebook.

Una volta arrivate a Dubai, anziché essere subito affidate a un datore di lavoro, sono rimaste rinchiuse negli alloggi della loro agenzia per diversi mesi. Qui non avrebbero ricevuto nessuna retribuzione né cibo adeguato e sarebbero state picchiate dopo aver abbandonato dei datori di lavoro violenti. La prigionia non ha permesso loro nemmeno di guadagnare uno stipendio per sostenere le famiglie a casa.

Il Guardian racconta la storia di una donna di 27 anni giunta nel 2021 negli Emirati Arabi Uniti per fare la collaboratrice domestica. Al suo arrivo, il personale dell’agenzia di collocamento Shamma Almahairi Domestic Workers Services Center le avrebbe confiscato il telefono e il passaporto e poi l’avrebbe collocata in una stanza, all’interno di un complesso, con altre 12 donne di origine kenyota. Dopo 3 mesi, la donna è fuggita mentre il personale era in pausa pranzo grazie all’aiuto di altre prigioniere. «Ci hanno detto che l’agenzia appartiene al governo e che non potevamo fare nulla. Sono dovuta scappare».

Una donna indonesiana che ha cercato di fuggire nel 2021 ha raccontato di essere stata sottoposta a un grave pestaggio. Lei, 50 anni, ha deciso di fuggire mentre stendeva il bucato sul tetto, attraversando l’edificio vicino. Una volta catturata, però, un manager egiziano dell’agenzia l’avrebbe picchiata mentre le altre donne erano costrette a guardare.

Questi casi non sono una novità: già nel 2014 un report di Human Rights Watch aveva denunciato le condizioni delle collaboratrici domestiche reclutate negli Emirati Arabi Uniti. All’epoca, secondo il gruppo per i diritti umani, le lavoratrici domestiche migranti nel Paese erano 146.000. Il Paese hanno una popolazione di 10,1 milioni di abitanti e gli immigrati rappresentano il 90%. Le lavoratrici domestiche sono molto richieste, e questo rende il commercio lucrativo per le agenzie di reclutamento, che necessitano di una licenza da parte del governo per operare.

HRW ne ha intervistate 99 tra novembre e dicembre 2013. Tutte sostenevano di essere state attirate con la promessa di salari elevati e buone condizioni di lavoro, e di aver subito una serie di gravi abusi all’interno del sistema di sponsorizzazione dei visti, noto come kafala, gestito dagli Emirati Arabi Uniti. Secondo quanto documentato, le lavoratrici domestiche sono particolarmente vulnerabili agli abusi da parte dei loro datori di lavoro e quelle che se ne vanno senza il loro permesso rischiano un’accusa penale per “fuga”, punibile con multe, arresto, detenzione e deportazione. Nei centri di reclutamento vengono tenute, a volte per mesi, fino a quando non viene trovato un datore di lavoro.

«Il sistema della kafala significa che le lavoratrici domestiche non sono più intrappolate solo dal loro datore di lavoro, ma ora anche dai reclutatori - ha spiegato al Guardian Rothna Begum, ricercatrice senior sui diritti delle donne presso Human Rights Watch - Questo le lascia esposte a ulteriori abusi, tra cui il traffico di manodopera forzata da parte dei reclutatori oltre che dei loro datori di lavoro, e i loro diritti per legge diventano insignificanti».

Il Governo degli Emirati Arabi Uniti ha revocato la licenza di Shamma Almahairi a settembre, a causa di multe non pagate e altre infrazioni burocratiche. Eppure, secondo l’indagine del Guardian, pare che le donne vengano ancora trattenute nei suoi alloggi. Un portavoce del Governo ha dichiarato al quotidiano britannico che «gli EAU mantengono una politica di tolleranza zero nei confronti degli abusi sul posto di lavoro. […] Conduciamo indagini approfondite ogni volta che individui e/o entità agiscono in modo tale da contravvenire alla legislazione degli EAU. Coloro che sono ritenuti colpevoli sono chiamati a rispondere in linea con la legge e la normativa degli EAU».

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