Galo Ramón Valarezo e Oscar Campanini: «Contro l’estrazione mineraria serve la resistenza civile»
Una mamma vive a pochi metri da una grande miniera di piombo che inquina l’ambiente e la salute dei suoi figli. Vorrebbe portarli via ma non può farlo. “Donde los niños no sueñan” è una delle pellicole del cartellone di Terra di Tutti Film Festival 2023.
WeWorld - nell’ambito del progetto Azioni in Rete per lo Sviluppo Sostenibile promosso dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica - che promuove la rassegna, in questa 17esima edizione che ha ospitato a Bologna una delegazione di attivisti, ricercatori, antropologi, esperti di genere e diritti umani, tutti partner dei suoi progetti.
Infatti l’organizzazione italiana indipendente, impegnata da oltre 50 anni nella cooperazione allo sviluppo e nell’aiuto umanitario in 27 Paesi Italia inclusa, è presente in Perù dal 2002 a sostegno delle famiglie più vulnerabili, delle cooperative agricole, dei pastori dell’area delle Ande, delle comunità che vivono in prossimità dei siti estrattivi e delle comunità migranti venezuelane e di accoglienza peruviane.
Inoltre WeWorld lavora in Bolivia dal 1987, con interventi in diverse zone del Paese nel settore idrico, sanitario e dei diritti umani.
In Ecuador invece opera dal 2021 tramite il partner locale Comunidec, co-fondato dallo storico Galo Ramón Valarezo: l’abbiamo intervistato insieme all’esperto in risorse idriche ed estrattivismo Oscar Campanini, direttore del Centro di Informazione e Documentazione per la Bolivia (Cedib).
Galo Ramon Valarezo, quali problemi sta affrontando l’Ecuador dal punto di vista dei diritti umani?
La Costituzione ecuadoriana approvata nel 2008 ha incluso una normativa molto avanzata sui diritti umani e su quelli collettivi del popolo. Il problema che sussistono per la sua applicazione è che ci sono vari modi per eluderla. Uno di questi è la dichiarazione di “progetto strategico” per l’Ecuador: quando se ne dichiara uno, il Parlamento lo approva e così si aggira la norma.
Per esempio, per la Costituzione non si può fare estrazione mineraria nelle risorse acquifere, in zone protette, in aree urbane e nei territori indigeni, senza una consultazione preventiva - come previsto dalla Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale per il lavoro (Ilo) -.
Purtroppo, come si è visto negli ultimi anni, quindi anche dopo l’approvazione del testo costituzionale, ci sono grandi progetti minerari istituiti proprio negli stessi territori che la legge proibisce.
Un secondo problema è la debolezza dello Stato che non ha le capacità e le risorse per monitorarle. Per questo, molto spesso si appoggia ad aziende molto vicine agli interessi delle miniere.
Un altro problema risiede nel sistema giudiziario ecuadoriano, soggetto alla corruzione.
L’ultimo problema è la fragilità della società civile, anche sul piano dei diritti. Spesso i cittadini non conoscono la legge e cadono vittima della retorica delle imprese minerarie che fanno promesse e favoriscono la divisione nelle comunità. In questo modo, si creano scontri e conflitti, anche all’interno dei nuclei familiari.
Nonostante questi problemi, la società ecuadoriana resiste: nel 2022 c’è stata una grande protesta portata avanti dalle popolazioni indigene con l’obiettivo di verificare tutte le concessioni minerarie presenti nel Paese.
Inoltre solo un mese e mezzo fa ci sono stati due referendum: uno di questi recitava: “Lasciamo o meno il petrolio sotto terra nella zona nel Parco nazionale Yasuní, zona protetta?” e l’altro domandava: “Diamo in concessione o meno il territorio del Chocó Andino per l’estrazione mineraria?”. In tutti e due i casi la popolazione ha risposto dicendo: lasciamo il petrolio sotto terra, non concediamo alle miniere quel territorio specifico, anche se per il Paese vale 1.000 milioni di dollari l’anno.
Nella società civile c’è la volontà di proteggere il proprio ambiente e la popolazione.
Cosa si può fare per rafforzare ulteriormente la coscienza civile su questi temi?
Il rafforzamento della società civile dovrebbe venire da una combinazione di vari sforzi. Il primo sarebbe la possibilità di precisare alcune parti della normativa. Per questo, creare una norma nazionale che la faccia applicare sarebbe un primo passo.
Un altro passo sicuramente sarebbe quello di rafforzare lo Stato stesso e i detentori dei diritti politici e civili del Paese ma anche di consolidare le capacità di monitoraggio su tanti fenomeni.
La terza necessità ovviamente è l’organizzazione sociale e la creazione di alleanze locali, nazionali e internazionali: per esempio l’alleanza locale della società civile organizzata con i municipi e i governi autonomi decentralizzati.
Quali sono le conseguenze di tutte queste situazioni sull’ambiente, sulla salute e sull’economia?
L’Ecuador è un Paese che dipende dalle sue esportazioni e principalmente da quella petrolifera, che è in calo. Per questo motivo, il settore minerario è diventato l’alternativa strategica per lo Stato, c’è molto interesse a sviluppare questo settore e ad attrarre in Ecuador grandi imprese internazionali e multinazionali.
Dall’altro lato, con la pandemia, è aumentata l’estrazione illegale che ha connessioni con gruppi transnazionali di mafia organizzata. Questo ha creato un’enorme violenza in Ecuador, soprattutto nelle zone estrattive, e un impatto molto importante sull’ambiente. Un fatto che preoccupa perché, anche se avviene su spazi e materiali ridotti, l’estrazione illegale ha un impatto simile a quello delle grandi imprese, perché viene fatta senza rispettare le regole.
L’estrazione su grande scala è un processo recente in Ecuador, è iniziata solo nel 2019. Si sono avviate tutte le esplorazioni e sono state installate le prime miniere. Quindi l’impatto sulla salute della popolazione è ancora a uno stato iniziale.
Quali sono quindi le alternative possibili e positive alle attività estrattive?
È difficile trovare alternative se non si ha una volontà politica e un consenso forte. Nelle zone in cui lavoriamo noi, il rafforzamento dell’economia della comunità a livello locale è evidentemente una possibilità. Si può mettere in campo una serie di alternative produttive, favorire il turismo, creare efficaci processi di commercializzazione, migliorare agricoltura e sicurezza alimentare. Però sul piano nazionale è più difficile trovare immediatamente alternative, perché implicherebbe pensare un’economia post-estrazione.
In Ecuador sicuramente dovremmo rimpiazzare il consumo di combustibili fossili e sperimentare le alternative di cui si discute nel mondo. È necessario anche per noi iniziare una transizione energetica. Queste sono proposte un po’ utopiche al momento, ma da sottolineare.
Quali sono le prospettive per il futuro?
È difficile essere ottimisti. Davanti a questo panorama, credo che in Ecuador l’estrazione mineraria continuerà a crescere con forza. Il panorama non è buono. Per il momento credo che non ci siano altre alternative che rafforzare la resistenza e la solidarietà a tutti i livelli.
Oscar Campanini, da tanti anni voi e WeWorld intervenite con progetti nel settore idrico e sanitario in Bolivia: quali sono le maggiori criticità in questi ambiti?
Uno dei principali problemi è l’incremento in quantità, intensità e occupazione spaziale delle attività estrattive. Gli impatti ambientali ma anche quelli diretti sulla vita della gente e sui loro mezzi di sussistenza, sulle politiche statali, sulla giustizia, sui diritti e sulla salute sono molto negativi.
Secondo lei, quali sono quindi le soluzioni e i rimedi che si possono mettere in campo contro questi problemi?
Le soluzioni sono molto complesse, perché queste criticità non dipendono solo da ciò che succede dentro i confini nazionali ma anche dal modello di consumo, di vita e della popolazione a livello mondiale. Nel nostro Paese però ci sono cose che si possono fare, a partire dalla politica e dal governo. Un primo passo sarebbe far rispettare le norme esistenti: contengono aspetti positivi e già solo attuarle sarebbe un passo avanti.
Dal punto di vista culturale e della sensibilizzazione delle persone, che cosa si può fare?
È fondamentale agire sull’informazione e la sensibilità della popolazione in Bolivia e fuori. Le istituzioni pubbliche e statali non funzionano, sono soggette alla volontà e all’interesse economico dei grandi attori. Perché ci sia un cambiamento, serve la pressione dell’intera società civile, una cittadinanza che agisca tutta insieme. Una possibilità quindi è sollecitare la coscienza, l’azione e la mobilitazione della gente.
Galo Ramon Valarezo ha parlato tanto dell’importanza della resistenza civile. Lei concorda?
Sì, la resistenza della società civile e specialmente di quella colpita direttamente da questi problemi è importante. In questi anni lo Stato e le imprese hanno tentato di erodere la resistenza. Questo significa solo che la resistenza stessa esiste. È più ridotta di prima ma anche più coraggiosa e calorosa. Si tratta di persone che resistono: mostrano il problema, mostrano vie d’uscita e mostrano un possibile orizzonte politico.
Su questo tema anche Margherita Romanelli, coordinatrice Policy e Advocacy di WeWorld, si è espressa ai microfoni de La Svolta.
Dopo anni di responsabilità sociale d’impresa volontaria, che purtroppo ha prodottor isultati insufficienti, dobbiamo accelerare: per passare dagli impegni ai fatti in ambito di sviluppo sostenibile, le imprese devono fare con più forza la loro parte contro lo sfruttamento delle persone e delle comunità.
Ora viviamo una nuova stagione di politiche che obbligano le imprese a fare la propria parte per lo sviluppo sostenibile; serve però maggiore impegno affinché le imprese italiane e globali possano costruire un modello di equità sociale e stabilità; creare un nuovo patto sociale tra mondo produttivo, consumatori, comunità, e istituzioni; sradicare sistemi di sfruttamento umano e delle risorse naturali in un’ottica di uguaglianza e accesso ai diritti.
In questa direzione si inserisce la Direttiva Ue sulla Corporate Sustainability Due Diligence, ora entrato nella fase cruciale del processon egoziale tra Parlamento, Commissione e Consiglio europei, sulla quale stiamo lavorando per far passare un testo ambizioso e che passi dalla teoria ai fatti.
Infatti, la Direttiva deve prevedere una chiara responsabilità civile delle imprese sul proprio operato, e facilitare l’accesso alla giustizia per le vittime, che in larga parte appartengono a gruppi più vulnerabili e con ridotta capacità di tutelare i propri diritti.
Inoltre, per abbassare le emissioni occorrono obiettivi chiari e misurabili, partendo dalla valutazione dell’impatto di ogni azione aziendale, dalla produzione alla commercializzazione, all’uso e allo smaltimento dei prodotti. Queste azioni costituiscono il processo di due diligence sui
diritti umani e ambientali di cui la Direttiva europea si occupa: per questo è importante che sia ambiziosa e che venga perfezionata e sostenuta dal nostro governo che è chiamato nei prossimi mesi a votarla.