Diritti

Israele e Hamas: il racconto dell’escalation bellica

Sabato l’organizzazione palestinese che controlla la striscia di Gaza ha sferrato un attacco contro il Paese del primo ministro Netanyahu. Ma questa guerra è iniziata molti anni fa: nel 1948
Credit: haaretz.com
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10 ottobre 2023 Aggiornato alle 07:00

Hamas, le morti, il terrore. Israele, 23,4 miliardi di dollari in spese militari, la maschera buona. Il terrorismo contro l’Occidente in Medio Oriente. Così viene raccontata la guerra di Israele. Una guerra giusta, dicono, inevitabile; una guerra a cui i cittadini sono stati condotti dagli ultimi attacchi di Hamas, quelli che il 7 ottobre hanno riportato la Palestina sulle prime pagine dei giornali. Perché si sa, per parlare di qualcosa serve un’emergenza, l’ordinaria violenza del genocidio, non fa notizia.

E dunque, ora c’è Israele, vittima perfetta di un conflitto che sembra esploso giusto un paio di giorni fa. Le parti si schierano, la pubblica opinione siede in trepidante attesa, commenta, si indigna. Giudica mentre fagocita notizie incomplete, che spremono intrattenimento dalla brutalità della crisi. La verità, però, è che la questione non è certo recente e che questa escalation non è il frutto di un occasionale detonazione, bensì di una lunga e protratta aggressione, quella principiata nel 1948 con l’istituzione di Israele e l’inizio dell’eradicazione della Palestina.

L’attacco a sorpresa sostenuto dalle Brigate al-Qassam, il fianco armato di Hamas, ovvero del gruppo che controlla la striscia di Gaza, giunge dopo l’incremento delle violenze contro i Palestinesi, dopo le aggressioni ai villaggi, gli sfratti violenti e l’attacco alla moschea Al-Aqsa. Dopo i morti di quest’anno (200 stando ai dati di agosto); ma anche dopo Jenin e Tantura. Dopo 75 anni di colonialismo e pulizia etnica. Dopo 35 di Ansar III, il complesso detentivo più grande al mondo. Dopo il fosforo bianco, le bombe e i colpi d’arma da fuoco, la morte di Shireen Abu Alkeh, la giornalista di Al-Jazeera uccisa durante un raid di Israele a Jenin.

Dopo che Israele ha lasciato che il Covid imperversasse in Palestina non consegnando i vaccini. Dopo la segregazione di 2,3 milioni di palestinesi nella striscia di Gaza, un territorio di 365 km quadrati, 47 km di lunghezza per 7 di larghezza. Dopo 75 anni di comunità internazionale che ricama sull’importanza di non ripetere un genocidio, ma sempre con riserva, lasciando che questi atti di sterminio intenzionale si avverino quando le vittime sono considerate meno rilevanti.

È lo stesso portavoce di Hamas, Khaled Qadomin, a specificare il ruolo della comunità internazionale: «Vogliamo che fermi le atrocità a Gaza contro il popolo palestinese e contro i nostri luoghi santi come Al-Aqsa».

Sia chiaro, non si tratta di condonare o sostenere le aggressioni di Hamas, ma di ripristinare il contesto in un panorama narrativo, quello europeo e statunitense, che si ricorda di morti e feriti solo quando l’attacco colpisce chi considerano depositario del diritto alla vita. Anzi, che si arroga il diritto di scegliere chi può essere considerato vittima e chi carnefice. E in un occidente islamofobo che riconosce in Israele la propria redenzione e l’espansione del proprio stile di vita, colpevolizzare le persone palestinesi è fin troppo facile.

I dimenticati sono i carnefici ideali. Un’attribuzione di colpa assoluta, funzionale là dove l’arabofobia diventa un perno essenziale nella legittimazione di pratiche che violano costantemente i diritti umani, come i respingimenti, ma anche i procedimenti di esclusione sociale che imperversano nell’Unione europea e negli Stati Uniti.

Ma più di tutto, è la Palestina a essere il problema, la spina nel fianco, di un mondo di super potenze che vogliono distribuire terre e influenze eradicando le popolazioni indigene, cancellandone cultura e futuro. La Palestina come territorio frammentato, i palestinesi come Nazione, come popolo unito anche nella diaspora, rappresentano una resistenza di lungo corso. Una resistenza strenua, fatta di tunnel sotterranei e penne a sfera riempite di sperma per evitare il controllo riproduttivo che Israele ha imposto con le detenzioni. Per evitare di morire in una generazione, di continuare a essere memoria. Di costruire un futuro là dove non si ha il diritto di pensarlo.

La Palestina è in lotta per la libertà, per la dignità dell’autodeterminazione. Combatte uno scontro impari, contro uno stato coloniale sostenuto dalle più grandi potenze (tant’è che lo stesso presidente Biden non ha mancato di dichiarare un sostegno formale dopo l’attacco del 7 ottobre) che possiede il sistema antimissile più sofisticato al mondo, contro un’idea diffusamente accettata nel sistema di Stati Nazione, ovvero che sono il peso economico e gli interessi strategici a stabilire il diritto di uno stato di esistere o meno.

Come se non bastasse, nell’ultimo anno la politica di Israele ha virato ancora più a destra, con una coalizione che vede schierati il Likud, il partito conservatore di Benjamin Netanyahu , il PSR (Partito Sionista Religioso), lo Shas (partito religioso sefardita), Giudaismo Unito nella Torah (sintesi dei lituani di Degel HaTorah e dei chassidim polacchi di Agudat Israel) e il Partito Sionista Religioso (Otzma yehudit e Noam). La coalizione aveva ottenuto 62 seggi al Knesset, il parlamento monocamerale israeliano, alle elezioni del 2022, di cui 33 proprio del Likud, su un totale di 120. Un risultato che ha da subito allarmato. Una svolta che ha inasprito le condizioni di vita delle persone palestinesi.

Ora, mentre Israele impone il blocco generale a Gaza, tagliando persino la fornitura d’acqua, la Commissione europea sta mettendo sotto revisione gli aiuti in favore dei palestinesi, un pacchetto pari a circa 691 milioni di euro, che potrebbero essere bloccati. Annuncio questo che arriva su X, a firma del commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato : “La portata del terrore e della brutalità contro Israele e il suo popolo rappresenta un punto di svolta”.

Germania e Austria hanno già sospeso gli aiuti, mentre gli Stati Uniti iniziano l’invio di truppe per mostrare supporto a Israele. Non mancano le dichiarazioni russe che suggeriscono un’alta probabilità che “terze parti” entrino nel conflitto, spostando nuovamente l’attenzione sull’eterno tira e molla per l’egemonia di potenza tra Usa e Russia.

Il dispiegamento di forze e il senso di legittimazione internazionale che sta investendo Israele, uniti agli interessi strategici, fanno temere che l’attacco sarà su larga scala. Una comunità internazionale connivente, che da 75 anni a questa parte non si sbilancia nemmeno sapendo che Gaza ha il più alto tasso di disoccupazione al mondo, pari al 45%, 70% per i neolaureati; dove, stando ai dati Unicef, il 96% dell’acqua fornita non è potabile; dove i residenti, secondo le stime Onu, hanno a disposizione solo 13 ore di elettricità.

Il problema è che avere quella che lo storico Ilan Pappè ha definito la più grande prigione al mondo in cima all’agenda internazionale non è una priorità. Non lo è mai stato. Come pure non lo è sostenere e tutelare un popolo privato della propria terra e del diritto a esistere e che, perciò, si trova a resistere. E dunque no, non si può certo condonare Hamas, ma se si vuole fare un discorso di senso, che non pecchi di a-storicità, non si può certo non tener conto di 75 anni di occupazione, apartheid e violenza. Non si può non considerare la realtà dei fatti e non guardare con orrore alla prospettiva che Israele scateni l’attacco finale.

Perché se oggi abbiamo la prova che i diritti di autodeterminazione dei popoli sono privilegio di pochi che non devono nemmeno rivendicarli, se dovesse cadere la Palestina ci ritroveremo per le mani un mondo che non ha prospettive di giustizia. Nemmeno per finta.

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