Futuro

Pubblicità e nuova trasparenza

Le aziende cercano di comprendere gli effetti dei loro investimenti promozionali sui media digitali. Ma non sempre i dati in loro possesso possono fornire risposte
Credit: colla
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28 settembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Una ricerca di Centromarca mostra che il 62% delle industrie di marca che fanno parte dell’associazione ha acquistato i servizi di micro-infuencer per diffondere messaggi utili alle strategie di branding e conoscenza dei prodotti.

Normalmente si tratta di collaborazioni nelle quali gli influencer generano contenuti destinati alle principali piattaforme, come Instagram o anche Facebook e TikTok, concordati con le industrie di marca e che contengono i messaggi adatti a sostenere la notorietà e l’apprezzamento dei brand.

Le piattaforme, normalmente, suggeriscono che la sponsorizzazione sia esplicitamente comunicata in quei post.

La ricerca è stata svolta per Centromarca da Almed - Alta scuola in Media Comunicazione e Spettacolo dell’Università del Sacro Cuore -, con Sensemakers e Comscore, in collaborazione con 100 manager delle aziende associate e analizzando 16.000 post.

Con quali risultati? Considerando che le aziende hanno investito nella produzione di messaggi di informazione sponsorizzati sui profili (Instagram e Facebook) di editori, di organizzazioni sportive e di influencer, il giudizio sui risultati si è basato sul numero di interazioni che il pubblico ha effettuato con quei post.

Ebbene: il 63% dei post sponsorizzati è andato sui profili degli editori, il 15% sui profili delle squadre sportive, il 22% sui profili di influencer.

La quantità di interazioni mostra la capacità di ingaggio dei diversi profili ed è avvenuta nel 45% dei casi sui profili degli sportivi, nel 28% dei casi sui profili degli editori e nel 27% dei casi sui profili degli influencer.

Sono considerati micro-influencer i profili che hanno tra 50.000 e 100.000 follower. In totale i post sponsorizzati su questi tre tipi di profili hanno generato interazioni 24 volte superiori a quelle ottenute dai post pubblicati sui profili aziendali.

Nella ormai consolidata ristrutturazione del mercato della propaganda nei media digitali, il problema della misurazione resta paradossalmente incompleto.

In una sorta di supplizio di Tantalo, i responsabili delle campagne pubblicitarie delle aziende si trovano di fronte un mondo pieno di numeri e dati, che promette di capire esattamente il valore degli investimenti, ma per diversi motivi si accorgono che alle informazioni manca sempre qualcosa.

Nel caso della ricerca citata, una volta compreso che i post sponsorizzati hanno una buona performance in termini di interazioni, sorge l’esigenza di comprendere che cosa queste interazioni producano.

Domenico Susca, senior consultant di Sensemakers, nota che la profilazione delle audience in relazione ai post sponsorizzati può servire a definire quali profili sono più coerenti con i valori delle marche e possono aiutare a produrre campagne cross-platform. Ma la verifica degli obiettivi raggiunti andrà «supportata da un’analisi complessiva dell’impatto delle campagne, che certifichi i risultati in termini di engagement, awareness, consideration, preference, purchase intent e i relativi effetti sul consumatore finale».

E d’altra parte, latente, c’è un problema in più, raramente analizzato: chi è in grado di capire quali sono gli effetti degli algoritmi delle piattaforme sui risultati ottenuti da queste campagne?

Se l’efficacia della pubblicità sui media tradizionali è sempre valutata sulla base di impressioni raccolte con sondaggi di varia qualità, in effetti, le campagne sulla rete digitale dovrebbero dare risultati molto più dimostrabili empiricamente. Ma la trasparenza dei comportamenti delle piattaforme non è sempre garantita.

Se l’obiettivo è semplicemente la vendita, le inserzioni sui siti di ecommerce - che in effetti sono in forte crescita nel mercato - si dovrebbero poter valutare abbastanza chiaramente: si guarda al rapporto tra investimenti pubblicitari e vendite, il risultato si dovrebbe calcolare facilmente. Ma le piattaforme si comportano lealmente? L’antitrust americana ha appena avviato un’indagine su Amazon e i suoi comportamenti nei confronti dei venditori di prodotti concorrenti con quelli sostenuti dalla piattaforma.

Ancora più complicata la valutazione nel caso che l’obiettivo sia il branding.

Si può calcolare per ogni euro investito nei social network o sui motori di ricerca, quante persone hanno avuto modo di notare un’inserzione e ci hanno cliccato sopra, quante hanno reagito dopo avere ricevuto un messaggio promozionale.

Ma che cosa rimane nel tempo? Le impressioni sono positive o negative? Ci sono forme di aggregazione stabile intorno alle marche o tutto scorre velocemente in un continuo rilancio nella necessità di farsi notare? E in ogni caso, gli algoritmi di raccomandazione delle piattaforme favoriscono alcuni tipi di messaggi rispetto ad altri?

Grazie a un raro studio di Twitter, prima che arrivasse Elon Musk a bloccare la comunicazione di questo genere di ricerche, sa che nella competizione politica i messaggi più divisivi hanno maggiori probabilità di essere rilanciati dagli algoritmi e dagli utenti.

È lo stesso anche nella competizione tra brand di aziende? Forse le forme di appartenenza legate al tifo sportivo sono più simili alle condizioni mentali delle fazioni politiche e per questo ottengono maggiori interazioni di quelle dei normali influencer?

Ci dovrebbe essere un modo per rispondere a queste domande. Il Digital Services Act dell’Unione europea aiuterà. Ma solo quando sarà chiaro in che modo, in base alla nuova legge, le piattaforme saranno obbligate a far conoscere i dati relativi a quello che accade sui loro network.

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