Futuro

Il servizio pubblico delle piattaforme private

Il confronto tra le aziende gigantesche che offrono servizi digitali e i poteri statali si fa sempre più duro. Le funzioni dei privati si allargano, la risposta pubblica si intensifica. Gli equilibri stanno cambiando
Credit: HI! ESTUDIO
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21 settembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Forse qualcuno ricorda i tempi in cui gli osservatori del sistema dei media si sono accorti con stupore che Facebook aveva un miliardo di utenti.

Si disse allora da più parti: se Facebook fosse uno Stato sarebbe il terzo più popoloso del mondo. Strano: ora che gli utenti di Meta sono più di tre miliardi nessuno dice che se fosse uno Stato sarebbe il più popoloso stato del mondo. Eppure oggi quel commento sarebbe più appropriato che qualche anno fa. Perché oggi Meta, come del resto le altre grandi piattaforme, da Amazon a Google, da Uber a Apple, da Twitter a Microsoft, si sono dotate di funzioni che assomigliano a servizi pubblici e si confrontano con i sistemi politici da posizioni di forza molto importanti.

Sul primo punto, per saperne di più, una lettura da non perdere è il libro di Vili Lehdonvirta, sociologo e sviluppatore di software che insegna all’Oxford Institute: Cloud Empires. Come le piattaforme digitali stanno superando gli stati e come possiamo riprendere il controllo (Einaudi 2023).

Il libro si apre con un resoconto delle attività svolte da aziende private al servizio delle piattaforme digitali per dirimere le controversie prima che vadano in tribunale.

«Le società che amministrano piattaforme digitali come Airbnb, Amazon, Apple, eBay, Google, Uber e Upwork hanno oggi al loro servizio migliaia di persone per gestire le controversie. La sola eBay afferma di aver risolto più di 60 milioni di controversie in un solo anno. Nel periodo corrispondente, il sistema giudiziario del Regno Unito ha gestito circa 4 milioni di casi, i tribunali cinesi circa 11 milioni e quelli statunitensi circa 90 milioni», scrive Lehdonvirta.

Insomma: le piattaforme svolgono privatamente un lavoro che un tempo era pubblico con efficienza, applicando ovviamente i loro privati criteri di giustizia.

In generale, le piattaforme risolvono in proprio una quantità di problemi relativi a transazioni commerciali, ma anche tematiche di diritto all’oblio, discorsi d’odio, questioni di disinformazione.

Non è dimenticato il momento in cui Twitter, Amazon, Facebook e altre piattaforme hanno ridotto al silenzio un presidente degli Stati Uniti per il fatto che stava alimentando l’invasione del Parlamento americano da parte di bande di facinorosi.

Ed è interessante osservare che con la stessa autocratica e privata volontà oggi Twitter ha cambiato completamente opinione su quell’episodio, perché è passata sotto il controllo di un nuovo proprietario che ha idee politiche diverse da quelle dei predecessori.

Del resto la privatizzazione della governance di alcuni mercati - nei servizi alberghieri, nella distribuzione delle merci, nella mobilità urbana - che alcune piattaforme sono riuscite a operare ha sostituito altrettante funzioni pubbliche. E che dire di alcuni sistemi di criptovalute: erano esplicitamente orientati a privatizzare le funzioni delle banche centrali e, anche se il tentativo non è riuscito, hanno mostrato di poter raccogliere vasto consenso intorno a un simile programma. Ma non va dimenticato il potere di Elon Musk e della sua Starlink: il suo servizio - privato - di comunicazioni satellitari è diventato decisivo per le sorti degli eserciti - pubblici - che combattono per esempio in Ucraina.

D’altra parte, il confronto delle piattaforme con i sistemi politici si fa sempre più frontale.

Google contesta alla Corte europea la regola secondo la quale è abuso di posizione dominante l’uso del suo motore di ricerca per sostenere servizi che invadono mercati adiacenti come quelli che confrontano offerte commerciali.

Amazon contesta la regola introdotta dalla Commissione europea con il Digital Services Act secondo la quale deve garantire i consumatori dalla disinformazione: Amazon sostiene di non avere responsabilità nella diffusione di informazioni - dunque neppure di disinformazioni - senza considerare l’importanza immensa delle valutazioni dei prodotti operate dai suoi consumatori.

Uber contesta la proposta di garantire ai suoi conducenti di auto gli stessi diritti dei lavoratori dipendenti e minaccia aumento dei prezzi e riduzione della qualità del servizio: considerazioni che potrebbero essere proposte da un monopolista che non ha problemi di pudore più che da una società che deve affrontare la concorrenza.

Queste posizioni si spiegano considerando che le piattaforme hanno un potere immenso e sono convinte di poterlo far valere nella discussione con gli stati.

Il potere che hanno accumulato deriva da un sistema normativo che le garantiva da qualsiasi responsabilità, sull’impianto legale deciso negli anni Novanta dall’amministrazione guidata da Bill Clinton.

Oggi quella irresponsabilità è totalmente fuori luogo. Ma gli Stati faticano a far valere il loro punto di vista di fronte al potere di queste piattaforme.

Naturalmente non potranno abdicare. Nel Regno Unito la nuova regolamentazione per la sicurezza online preverebbe un allargamento incredibile del potere pubblico, che darebbe allo Stato il potere di entrare nei messaggi criptati sulle piattaforme e di considerarle direttamente responsabili della disinformazione, con buona pace dei sostenitori della libertà di espressione.

Gli equilibri, insomma, sono sotto stress. Ci si può aspettare un confronto sempre più profondo.

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