Culture

L’avamposto: storia dell’eco-guerriero Christopher Clark

Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, il documentario di Edoardo Morabito racconta il sogno del fondatore della riserva naturale di Xixuau: salvare l’Amazzonia
Foto tratta dal film "L'avamposto"
Foto tratta dal film "L'avamposto"
Tempo di lettura 6 min lettura
5 settembre 2023 Aggiornato alle 19:00

“Siamo condannati alla civiltà̀, o ci integriamo o scompariamo”. Ci aveva visto lungo Euclides de Cunha, scrittore brasiliano vissuto nella seconda metà del 1800 che viene citato ne L’avamposto, opera emozionante e necessaria a firma del talentuoso catanese Edoardo Morabito (che, oltre la regia, si è occupato della sceneggiatura e del montaggio), presentata all’80° Mostra del Cinema di Venezia nell’ambito delle Giornate degli Autori e accolta da applausi sinceri e scroscianti al termine della proiezione.

Il film in questione, che al genere del documentario unisce quello del vecchio racconto d’avventura e del film politico, racconta le gesta di Christopher Clark. Scozzese fuori dall’ordinario, tra una caipirinha e una delle infinite sigarette giornaliere, negli ultimi 25 anni della sua vita ha indossato con ruvida autenticità il costume dell’eco-guerriero, sognando un modello di società utopica basato sul perfetto equilibrio tra natura e tecnologia, creando il suo personalissimo “Avamposto del progresso” in uno dei luoghi più remoti e incontaminati del Pianeta: la riserva naturale dello Xixuau in Amazzonia, gioiello naturalistico di 630.000 ettari interamente ricoperto da foresta tropicale vergine e raggiungibile solo per vie fluviali partendo dalla città di Manaus e compiendo un pericoloso viaggio lungo il Rio Negro tra secche, caimani e razze velenose. Un viaggio che ricorda quello dell’anima compiuto dal konradiano Kurtz in Apocalypse Now.

Clark (che restando in ambito cinefilo evoca anche il Fitzcarraldo di Herzog per la sua folle visionarietà oltre che per la location) si sente investito di una missione: salvare quel che resta dell’Amazzonia. Con ogni mezzo possibile.

«È una storia che parla di desiderio - ha spiegato il regista in sala al termine della proiezione - Perché non ci può essere nessun cambiamento senza desiderio». Questo indomito e fiero personaggio, la cui visionarietà andava comunque di pari passo con un forte pragmatismo, è riuscito a proteggere per anni questo luogo sterminato, da lui stesso paragonato a «un’enorme biblioteca di 30 stanze dove non si è ancora riusciti a entrare in tutte», preservando il territorio dal bracconaggio, opponendosi allo sfruttamento dissennato e alla deforestazione, debellando la malaria e cercando di scongiurare la perdita della biodiversità, anche grazie alla collaborazione della comunità dei Caboclos, meticci brasiliani da lui stesso trasformati in guardiani della foresta, contribuendo alla loro alfabetizzazione e cercando di renderli autonomi finanziariamente facendoli lavorare con l’eco-turismo.

Tutto questo fino a quando la situazione sfugge di mano e inizia a peggiorare di anno in anno. Un grande incendio inizia a distruggere la foresta e il progetto entra in fase di stallo, sia per l’inettitudine dei nativi che, inebriati da illusorie promesse di facile benessere, si sono trasformati da protettori in predatori causando enormi sperperi delle risorse procurate («questo è quello che succede quanto i bambini giocano a fare i grandi», dice senza mezzi termini il protagonista), che per l’avversione della comunità politica internazionale, oltre che di una parte del Governo brasiliano.

E quando proprio il Governo si rifiuta di creare la riserva, Chris, disgustato dal chiacchiericcio e ipocrisia del mondo civilizzato che lo ha persino accusato di “ecoterrorismo”, decide di giocare d’azzardo imbarcandosi in un progetto folle e visionario: opporre alla spettacolare distruzione della foresta un evento altrettanto spettacolare, un concerto dei Pink Floyd dentro il cosiddetto Inferno Verde (definito nel film come «il concerto più improbabile e urgente di sempre»), così da sensibilizzare la comunità politica internazionale e convincere il Governo a istituire una riserva.

Particolarmente avvincenti sono le scene in cui Clark abbandona temporaneamente la sua amata foresta (in cui sognava di morire seppellito senza lapide) per tornare nel mondo urbanizzato da lui detestato, con l’obiettivo di convincere celebrità mondiali (non solo David Gilmour dei Pink Floyd ma anche Bianca Jagger e importanti filantropi) a prendere posizione e sostenere la sua causa.

Invero, un’operazione di questo genere, per quanto suggestiva, presenta diversi aspetti contraddittori e si presta potenzialmente a una serie di riflessioni: è possibile applicare un sogno e ideale occidentale a un popolo che vive su un altro Pianeta? Lo scopo di Clark era davvero salvare il mondo o solo di fuggire dal proprio? È giusto pretendere di salvare il mondo inseguendo il sogno di un paradiso perduto? Ha senso salvare l’Amazzonia con un simbolo del modello capitalista come la musica rock, lo stesso modello che la stava distruggendo? E gli stessi dilemmi filosofici si potrebbero applicare (mutatis mutandis) allo stesso regista, potendoci interrogare sul fine ultimo del fare cinema.

Come disse il celebre Leonard Bernstein, citato testualmente nel film Maestro presentato al Lido in questi giorni: “Un’opera d’arte non risponde alle domande. Le provoca; e il suo significato essenziale sta nella tensione tra le risposte contraddittorie”. E così l’importanza di quest’opera non sta nel fornire facili soluzioni al problema ambientale ma nello stimolare la discussione a tutti i livelli.

Purtroppo, durante la realizzazione del film, Chris Clark, il cui motto è sempre stato «abbiamo preferito vedere il mondo così come non è piuttosto che morire di tristezza», si è ammalato gravemente di cancro e, quando nell’estate del 2020 è mancato prematuramente, il regista ha dovuto rivedere sostanzialmente la propria agenda, modificando la sceneggiatura e l’impianto narrativo, aggiungendo la propria voce fuori campo e approfondendo la relazione con il protagonista. Ma non tutto era andato perduto. Pochi giorni prima di morire Chris aveva ricevuto la comunicazione dal Governo brasiliano di aver approvato il progetto della riserva.

Alla fine la voce fuori campo del regista catanese ci dice che «Il mondo è fottuto comunque, ma almeno quel pezzettino di mondo lo abbiamo salvato». Certo, la stessa foresta amazzonica continua a bruciare e ci sono ancora tante altre questioni urgenti a livello globale. Tuttavia, mentre fuori il mondo brucia e noi assistiamo inerti al climate change come fosse la diretta streaming del grande spettacolo che è l’apocalisse, storie come L’Avamposto, un film che racconta la fine del mondo o quantomeno la distruzione del mondo naturale per mano degli esseri umani, sono necessarie perché sottolineano l’importanza del sogno per tornare a immaginare possibili futuri.

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