Diritti

Quando dire basta ai social

La vicenda dello stupro di Palermo testimonia una deriva social pericolosa che non si può più ignorare. Intanto, Rocco Siffredi fa boutade sul divieto dei video porno ai minori…
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Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
28 agosto 2023 Aggiornato alle 12:00

A volte è reale dispiacere e desiderio di mostrare vicinanza, altre esibizionismo, altre ancora, e sempre più spesso, cinica voglia di engagement facile.

Qualunque siano le motivazioni che hanno spinto migliaia, ma forse sarebbe meglio dire milioni, di persone in questi giorni a condividere sui social video e pensieri sparsi sullo stupro di Palermo, nominando la vittima, taggandola e rendendo il suo nome virale perché preceduto da un hashtag, sono sbagliate.

Anche le più nobili, che comunque mi permetto di pensare siano in minoranza.

Nell’era in cui tutti si sentono cronisti perché possessori di uno smartphone, nessuno, spesso neanche i giornalisti di professione, sa davvero come muoversi. O lo sa e lo ignora, immolando ogni minimo scrupolo sull’altare delle visualizzazioni.

“È stata una delle notizie più virali di sempre”, “C’è stata una grande partecipazione emotiva sui social”, si è letto da più parti in questi giorni. Come fosse un fatto positivo, come se una violenza sessuale multipla su una ragazza di 19 anni potesse apparirci meno grave perché almeno è diventata virale.

Quello è ciò che conta, la notizia in sé è solo un mezzo per arrivare al fine, che non è quasi mai riflettere e istigare un cambiamento ma esporre se stessi.

E poco importa se una donna che dovrebbe poter curare le proprie ferite con i tempi e modi che preferisce, si trova a dover gestire una popolarità non voluta.

Uno dei profili social della diciannovenne ha raggiunto in pochi giorni i 46.000 follower, come quelli di una star. Ma lei è solo una ragazza come tante, che va a scuola, al mare, in centro con le amiche, la cui vita un giorno è cambiata per sempre. Che ha denunciato e che adesso ha tutti gli occhi puntati addosso. Quelli di chi pensa che in fondo qualcosa di strano in questa storia ci sia, e quelli di chi vorrebbe abbracciarla ma non può. Anzi non deve, nemmeno virtualmente.

Perché si tratta di una violenza nella violenza, di un’intrusione in spazi che non competono a nessuno. Perché sbirciare le foto di questa giovane sorridente al mare alcuni giorni prima dell’abuso e scrivere sotto lo scatto quanto ci dispiaccia per l’accaduto sporca anche quel ricordo felice, sigilla la violenza per sempre nella memoria social e non fa bene a nessuno. A lei, a chi scrive e ai tanti che scrollano quei commenti, in cerca chissà di cosa. Una voce fuori dal coro? Una polemica?

Chi studia i social network ci aveva messo in guardia già da tempo: in mancanza di un’adeguata educazione digitale questi strumenti prenderanno il sopravvento su di noi.

Pur senza farsi trasportare dalla fantasia verso scenari apocalittici da film di fantascienza non si può negare che la previsione si sia avverata, con la distanza tra reale e virtuale divenuta ormai inesistente e ragazzi e ragazze ancora minorenni convinti che fare un video con un avatar che parla a nome dell’abusata, o uno con il proprio volto addolorato e la canzone struggente del momento in sottofondo sia utile. O peggio ancora sia necessario.

E poco importa che il Garante della privacy abbia chiesto il massimo riserbo e avvertito che chiunque divulghi informazioni che possano far risalire all’identità della giovane o condivida il video della violenza commetta un reato punibile fino a sei mesi di carcere. Il circo continuerà, la condivisione famelica anche, perché la voglia di esserci sempre è superiore a qualunque scrupolo.

Lo dimostra anche l’ennesimo hashtag virale #iononsonocarne, condiviso anche da numerose celeb, chissà se in buona fede o spinte dalla voglia di mettere il cappello sull’evento del momento. Come fosse la festa più cool dell’estate, da non perdersi per nulla al mondo.

Si è espresso in merito anche Rocco Siffredi, che ha proposto la chiusura di tutti i siti porno, almeno fino a che non saranno affiancati da un’adeguata educazione, visto che la loro fruizione da parte dei giovanissimi li spinge a sviluppare un’idea di sessualità molto diversa dalla realtà e in buona parte misogina.

In tutto questo vortice di parole, foto, video, canzoni e pensieri non richiesti, l’immagine della vittima sbiadisce sempre più sul fondo, ma paradossalmente il suo nome si scolpisce nel luogo senza possibilità di oblio che è il web.

Reagire a uno stupro è personale, nessuna lo fa come un’altra e nessun modo è migliore. Sicuramente però uno dei desideri meno condivisi è quello che tutto il mondo sappia, che tutti possano per sempre guardarti con quell’aria di pietà che si riserva alle vittime.

Per questo l’esplosione social alla quale stiamo assistendo è pericolosa, perché può convincere tante donne che si trovano nella stessa situazione a non denunciare, a fare un passo indietro per non correre il rischio di essere travolte.

E può spingere alcuni giovani maschi a pensare che in fondo avere la meglio su una ragazza possa essere figo. Che possa portare alla popolarità, almeno online.

L’unico minorenne presente allo stupro di Palermo dalla comunità alla quale era affidato ha scritto online frasi evocative come “Le cose più belle si fanno con gli amici”, ricevendo critiche ma anche una pioggia di like. Di pochi giorni fa è anche la notizia di profili fake, poi chiusi, in cui giravano video falsi dei fermati che rigettavano le accuse con spavalderia.

Falsi che hanno fatto indignare i più ma che hanno raccolto anche qualche consenso, perché in fondo il maschio alfa deve farsi rispettare e se ci riesce non può che essere ammirato, anche quando commette un reato.

Le agenzie di stampa e i giornali online hanno poi aperto con un altro caso di stupro di gruppo, questa volta a Napoli a danno di due tredicenni, da parte di un branco di pari età. La violenza sarebbe avvenuta a inizio luglio quindi in questo caso non si può parlare di quel rischio emulazione che molti hanno paventato come paradossalmente possibile dopo l’eco mediatico di Palermo.

Le due vicende però sono comunque collegate e il ruolo dei social è centrale. Basta andare su quello più amato dai teenagers, TikTok, per imbattersi in ventenni con milioni di follower che ammettono di volersi approcciare alle ragazzine, di “esserci rimasti sotto (essersi invaghiti) per una ‘07 (nata nel 2007)” e di chiedere, e ricevere, abitualmente foto di parti intime femminili. È una novità? Certo che no. Dovremmo iniziare a occuparcene? Certo che sì.

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