Diritti

La tragedia di Casal Palocco e le anime belle che è colpa dei social

La corsa folle dei The Borderline e l’immediata reazione di chi punta il dito contro piattaforme da cui sono dipendenti non solo i ragazzi. Il dibattito - anche se hannp chiuso il canale YouTube - prende la piega di un’antica predica
Credit: Lucian Alexe
Tempo di lettura 4 min lettura
18 giugno 2023 Aggiornato alle 06:30

Da ieri un paio di chat nelle quali mi trovo perché vi si condividono idee e si ragiona di politica e di economia, sono in fiamme: viene postato a manetta e accolto da manine-che-applaudono un commento di Walter Veltroni sulla tragedia di Casal Palocco, nella quale l’ex leader del PD, ormai regista e romanziere, dalle colonne del Corriere della Sera punta il dito contro (cito il titolo) “l’inganno dei like, quelle vite ridotte a conta dei follower” e ci spiega che “tutto il gigantesco circo Barnum che è stato allestito intorno ai social è ormai pieno di veleni”, parla di virus e di rimozione dei valori, del senso a favore dell’egolatria. E per fortuna dei lettori del Corriere non cita la fine delle mezze stagioni.

Nel frattempo Carlo Calenda, ovviamente scrivendolo su Twitter, ipotizza che le piattaforme siano obbligate a rimuovere contenuti “pericolosi”, qualsiasi cosa voglia dire “pericolosi”: il mio concetto di pericolo è ovviamente diverso, tanto per fare un esempio, da quello del senatore Pillon, che probabilmente farebbe rimuovere anche l’ombra di un arcobaleno per il sospetto che sia propaganda gender, sognando un Instagram di famiglie etero, vestite a modino e timorate di Dio. La morte di un bambino di 5 anni in un incidente stradale è un fatto terribile, inaccettabile, ma non autorizza persone come Veltroni o Calenda a usarlo come arma di una sorta di populismo “buonsensista” e reazionario che attribuisce al nuovo modo di funzionare del mondo le colpe dei fatti di cronaca.

Il fatto che a centrare una Smart a un incrocio siano stati 2 YouTuber con un discreto seguito, alla guida di una Lamborghini e impegnati in una challenge (sfida) che prevedeva di passare 50 ore in auto, compreso il mangiare e il dormire, non rende colpevoli i social, né la presunta cultura dei like, ma eventualmente un ventenne che ha fatto una manovra azzardata su una macchina che evidentemente non era in grado di gestire. E questo è avvenuto mentre tecnicamente svolgeva il suo lavoro nell’industria dell’intrattenimento, non mentre era “a caccia di qualche like”. Purtroppo succede su tutte le strade italiane, a ogni ora del giorno, ma soprattutto di notte e nel fine settimana: migliaia di famiglie italiane piangono figli giovanissimi morti o mutilati in una strage che va avanti praticamente da sempre.

Ma incolpare i social è facile. E ancora più facile è dire che divorano i giovani. Come se centinaia di milioni di genitori in tutto il Pianeta non passassero ore e ore al giorno davanti a quegli schermi, gestendo questo tempo persino peggio dei pargoli e dando loro, per primi, l’esempio. Come se centinaia di milioni di genitori in tutto il Pianeta non iniziassero a diffondere foto dei medesimi pargoli (“la dittatura dei like”) da quando sono nel grembo materno fino alla laurea e oltre, senza che neanche un passaggio, dalla prima ecografia, sia omesso.

La verità è che ci siamo tutti dentro, per il semplice fatto che le nostre relazioni, le nostre stesse vite, non si svolgono più esclusivamente in un mondo fisico, ma sono un mix di piano fisico e piano digitale, entrambi reali tanto quanto lo sono le emozioni che ci guidano, i pensieri che ci attraversano, i rapporti che instauriamo. E se è così per chi oggi ha 40 o 50 anni, come dovrebbe essere per coloro che in questo mix ci sono letteralmente cresciuti? Tra loro ci saranno legioni di imbecilli che sfrecciano a 110 all’ora in città per il gusto di farlo e legioni di imbecilli che lo fanno per qualche like; idioti che useranno i social per insultare e diffondere notizie false e persone meravigliose che li useranno per diffondere amore, alimentare reti e relazioni.

Non ci sono cose da proibire, ma una cultura da diffondere perché questi ultimi prevalgano. E un’altra cultura da alimentare, quella della responsabilità individuale: gli imbecilli paghino per le loro azioni, non attribuibili allo strumento che usano, ma a come lo usano. In definitiva a loro stessi.

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