Culture

Più follower, più libri

Diventare scrittrici e scrittori non è semplice, specialmente se non sei “forte” sui social. Perché oggi (spesso, ma non sempre) le opere vengono comprate soprattutto dal pubblico fidelizzato
Credit: cottonbro studio
Tempo di lettura 6 min lettura
12 marzo 2023 Aggiornato alle 06:30

Scrivere libri difficilmente diventa un lavoro. Succede a poche persone, dal talento straordinario. Sempre più spesso, però, non si tratta più di cosa venga scritto e come, ma di quanto sia vendibile.

Nelle librerie, in particolare in quelle della grande distribuzione, si perde facilmente il conto del numero delle opere simili. Quelle che una volta erano collane, ora sono riproduzioni fedeli del libro apripista che ha inaugurato una forma narrativa con canoni precisi e facilmente riproducibili.

Verrebbe da pensare che, una volta trovata la formula vincente, questa sia stata riproposta per incontrare sia la natura dell’editoria (quindi la varietà) che la trasformazione della stessa da agenzia culturale a mercato.

Un mercato che tutti sappiamo essere in crisi, non solo perché (stando ai dati Istat) solo il 41,6% della popolazione sopra i 6 anni ha letto almeno un libro all’anno, ma anche per le impennate dei prezzi di produzione. La carta costa e scarseggia, va prenotata in anticipo e nella giusta quantità.

L’editoria si intreccia qui alla produzione di una materia essenziale, che continua a richiedere lavorazioni dispendiose in termini ecologici. La carta riciclata, a esempio, costa molto più di quella vergine. E sebbene quasi ogni stampa arrivi con il marchio fsc, possiamo serenamente dire che non è abbastanza per ridurne l’impatto.

Certo, accorpare le colpe della crisi climatica all’industria che consente la produzione e la spedizione dei libri sarebbe tristemente miope, soprattutto visto l’impatto delle altre industrie (fossile e agribusiness carnista in testa).

Il punto, però, è che all’aumentare dei costi, aumentano anche i processi pericolosi che rischiano di infarcire l’offerta editoriale di prodotti, non di libri, trasformando così la proposta culturale nell’ennesima compravendita votata all’iperconsumo.

Non tutte le collane vengono per nuocere e anche nelle produzioni più “standardizzate creativamente” riescono a emergere delle gemme di stile e di racconto. Perché la scrittura ancora può: sa resistere e infiltrarsi nelle maglie sempre più strette del consumo, in cui tutto viene sublimato al guadagno, comprese una buona penna e una buona storia.

La letteratura resiste, si impone sugli scaffali con non poca fatica e riesce a far esordire persino qualche connazionale di talento nonostante la tendenza sia ormai quella di pubblicare titoli che hanno già avuto un buon esordio all’estero.

Talento, questo è il problema. In una cultura sociale, in cui tutto è subordinato al test dei talent show, che di fatto verificano la portata e l’effetto sul pubblico, una procedura creativa e complessa come la scrittura è difficile da testare.

Ed ecco che entrano in gioco i social che, con il loro sistema classista digitale, riescono a dare prestigio ad alcune persone: un’esposizione che si rintraccia facilmente nella proposta della creazione, da zero, di un libro da vendere ai follower o alle persone connesse al giro di amicizie social dell’influencer.

Di nuovo, anche in questo caso, riescono a trovare spazio voci straordinarie e preziose, che trattano i libri con la giusta dose di gioia e devozione. C’è però il rovescio della medaglia, ovvero la creazione dei libri-prodotto, nuovo gadget brandizzato e nulla più per chi è in cerca di spunta blu di verifica o di un nuovo prodotto da vendere.

Il marketing “social” editoriale riprende la struttura elitista della prima editoria, quella che era abitata solo da chi aveva effettivamente tempo per scrivere e conoscenze per trovare terreno fertile per la stampa. Ora, l’elitismo si propone nella dimensione della produzione culturale, forte di numeri (troppo spesso gonfiati) e della pubblicità garantita dalla copertura dei social.

Di nuovo, ridurre tutto a un problema di media sarebbe ridicolo. Le librerie, infatti, sono piene da decenni di testi pensati in funzione del nome che avrebbe occupato la copertina.

Mi ricordo ancora l’anno in cui uscì il primo libro di barzellette su Totti, scritto da Francesco Totti. O ancora: rabbrividisco se penso alle pile di carta stampata per vendere il libro di attori che “sposano la causa green”, senza mai scendere in piazza a telecamere spente, farsi 2 domande sulla bistecca che mangiano o sull’impatto delle industrie con cui collaborano.

Di recente ho letto che il libro firmato dal Principe Harry e scritto da J. R. Moehringer ha venduto circa 3,2 milioni di copie: un numero che si può certamente attribuire alla fame di pettegolezzi sulla madre del duca di Sussex, Diana Spencer, ma che ci rivela molto di più.

Finalmente, si parla della scrittura fantasma, quella per cui un professionista viene pagato per scrivere un libro che sarà firmato da altri, possibilmente famosi, per vendere direttamente al loro bacino di ammiratori. Un lavoro che non sorprende scoprire essere il prodotto dell’ingegno di uno spin doctor, un professionista esperto nell’elaborare la strategia comunicativa di politici e persone con un’immagine pubblica.

Con questa consapevolezza, possiamo osservare gli scaffali e strizzare gli occhi e chiederci quanti dei libri in offerta siano stati prodotti a tavolino senza che l’autore o l’autrice abbiano nemmeno mai pensato a prendere in mano la penna.

L’iperconsumo non conosce tregua e non la offre nemmeno a chi, per vocazione o per mestiere, dovrebbe provare a proteggere i libri. Anzi, l’idea che tutto sia mercificabile (più tristemente, che debba esserlo) sta ampliando il mercato dei libri “famosi” prima ancora di essere pubblicati. Persone che, pur non avendo storie da inventare o da raccontare, si rintracciano nelle ricerche di Google come autori e che popolano i piani di lavorazione e pubblicazione delle case editrici, il cui fatturato inizia a essere sempre più connesso al pubblico fidelizzato degli pseudo-autori.

Nel 2021, sempre secondo le rilevazioni Istat, sono aumentati dell’11,1% rispetto all’anno precedente i titoli pubblicati, ma anche le tirature. Sempre più spesso si scrive per vendere e non perché scrivere abbia un valore in sé. Che sia politico, narrativo o divulgativo, il fine della scrittura dovrebbe essere ben lontano dalla produzione di qualcosa da vendere al pari della capsule collection della persona famosa di moda in quel momento.

Per fortuna, però, nulla è perduto. Ora in mano tengo in libro di una persona che nemmeno ha Instagram, e mi sembra davvero meraviglioso che la sua voce sia arrivata fino a me senza che la sua cassa di risonanza fosse stata già testata in base numerica.

Nel mentre, un’amica carissima e brillante, che sui social è un portento, sta lavorando a un libro altrettanto meraviglioso, che non vedo l’ora di incrociare sugli scaffali delle mie librerie preferite. Ne ho un’altra, dall’intelligenza disarmante, che presto sgancerà un testo portentoso capace di cambiare la vita alle persone, e quasi sento che non se ne rende conto. E so che le loro saranno aggiunte potenti alle mensole di libraie e librai, di lettrici e lettori.

La capitalizzazione della letteratura è una realtà, ma finché la resistenza su carta c’è e non demorde abbiamo ancora una speranza. Quella di leggere o ascoltare un libro che abbia davvero tutto quello che la sua sola esistenza promette.

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