Ambiente

Debito ecologico: perché dovremmo parlarne di più

Il concetto si riferisce al danno agli ecosistemi e allo sfruttamento delle risorse come fattore di indebitamento dei Paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo

Situata sulla costa orientale della penisola dello Yucatan, nello Stato di Quintana Roo, Sian Ka´an è una delle più grandi aree protette del Messico ed è stata istituita per gestire 528.148 ettari di ecosistemi marini, costieri e terrestri strettamente collegati tra loro.

Circa 120 chilometri di costa stringono in un caldo abbraccio foreste tropicali, savana di palme, una delle zone umide più incontaminate della regione, lagune, mangrovie e dune sabbiose. Tra le onde, invece, un’area marina protetta di 120.000 ettari tutela una parte preziosa della barriera corallina mesoamericana e le praterie di fanerogame nelle baie poco profonde. È un paesaggio lento, dove tutti camminano ancora a piedi, talvolta scalzi, e fanno slalom tra le giganti pozze d’acqua che, alla prima pioggia, si accumulano nelle strade sterrate.

Migliaia di anni fa, i Maya chiamarono questa zona “Origine del cielo”, o appunto Sian Ka´an, nel tentativo di rendere omaggio alle numerose sfumature di blu delle lagune e del Mar dei Caraibi, quasi un tutt’uno con un cielo senza confini.

Ecco perché, quando ci si avvicina alla spiaggia la sensazione di straniamento che si prova è ancora più forte. Una infinita distesa di plastica ricopre la sabbia: tappi, bottiglie, frammenti di ogni dimensione, spazzole e persino ciabatte di modelli e numeri diversi. A farsi largo tra i rifiuti, una famiglia di Piro piro zampelunghe e, a qualche metro di distanza, cormorani e pellicani in attesa di tuffarsi nella distesa di zuppa di plastica salata per pescare.

Sarebbe facile pensare che questi rifiuti siano il risultato di anni di “malagestione” da parte della comunità locale. Che siano frutto di ignoranza o disinteresse. Invece, la loro storia è diversa e viene da lontano… da Paesi che si trovano a centinaia di miglia nautiche di distanza e che sono stati trasportati fino a qui dalle correnti oceaniche, a ricordarci che su questo Pianeta esistono fili invisibili che collegano ogni essere, ogni ecosistema e ogni azione.

Poniamoci le giuste domande

Il 5 giugno ricorre il cinquantesimo anniversario della Giornata mondiale dell’Ambiente. L’ennesima ricorrenza che, da aprile in poi, riempie le agende politiche e imprenditoriali di eventi a cui è impensabile mancare.

Così, passata la Giornata della Terra e quella della biodiversità, e in attesa di quella per l’ambiente e poi per gli oceani, passando per tutte quelle che celebrano l’esistenza di leoni, elefanti, balene, pappagalli e quant’altro, verrebbe da chiedersi - anche un po’ a ragione - se nel 2023 abbiamo ancora bisogno di una spunta sull’agenda per darci una mossa. Purtroppo, a giudicare dai dati, sembrerebbe di sì.

Ogni anno vengono prodotti 400 milioni di tonnellate di plastica, la metà delle quali è destinata a essere utilizzata una sola volta e di cui meno del 10% viene riciclato. Il corollario è che tra i 19 e i 23 milioni di tonnellate di plastica finiscono annualmente in laghi, fiumi, mari e, complice la catena alimentare, anche il nostro organismo. E se per molto tempo si è raccontato che tutto ciò fa sì che ogni settimana ingeriamo più o meno il corrispettivo di una carta di credito, ora è bene sapere che la plastica è arrivata persino nelle nostre mutande.

È quanto emerge da uno studio pubblicato nelle scorse settimane su Science e che evidenzia la presenza di polistirene (PS, 68%), polietilene (PE) e cloruro di polivinile (PVC) nello sperma umano, ribadendo l’ipotesi che il deterioramento della qualità del liquido seminale registrato negli ultimi anni possa essere legato all’esposizione alle microplastiche. Studi precedenti hanno inoltre rilevato come le microplastiche siano presenti anche nell’apparato riproduttivo femminile e nella placenta con indubbie conseguenze per i potenziali nascituri.

Ecco perché il tema scelto dalle Nazioni Unite per quest’anno - BeatPlasticPollution - assume un’importanza capitale ma rischia di finire presto nel dimenticatoio o nel cesto degli argomenti così triti e ritriti da creare assuefazione. A questo si aggiunge la necessità che lo slogan non si limiti alla solita propaganda sull’importanza delle azioni individuali e alla chiamata all’azione per ripulire il territorio dall’inciviltà. Con questo non voglio affermare che un cambiamento nello stile di vita delle persone non sia importante, anzi.

La nostra stessa capacità di scegliere, la nostra volontà di cambiare, è a tutti gli effetti il motore della rivoluzione di cui abbiamo bisogno per sopravvivere su questo Pianeta. Ma verrebbe da chiedersi se continuare a demandare al singolo la responsabilità dell’emergenza ambientale sia ancora opportuno e quante giornate mondiali quest’ultimo possa ancora sostenere prima di soccombere sotto il peso dell’ansia da prestazione.

Ammetto fin da subito che non sono in possesso di una risposta univoca alla grande domanda su “cosa possiamo fare”. Ma, forse, posso quantomeno offrire una lente di analisi inclusiva che consideri tutti gli aspetti in gioco e ci conduca a porci le domande corrette quando, la mattina del 5 giugno, metteremo i piedi giù dal letto in un Pianeta che difficilmente sopporterà ancora a lungo la nostra presenza.

Innanzitutto, perché la distruzione dell’ambiente dovrebbe avere importanza?

Ci siamo evoluti pensando che la nostra esistenza dipenda da un sistema economico e produttivo che noi stessi abbiamo creato. Invece, la nostra specie è parte della natura da cui deriva, e senza di essa non possiamo vivere in maniera duratura e soddisfacente, né dal punto di vista fisico né da quello psichico. Ma se questo non dovesse essere sufficiente, ricordiamoci che tutti i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile inclusi nell’Agenda 2030, che abbiamo eletto a pilastro del modello entro al quale vogliamo definire il nostro futuro, dipendono da un Pianeta in salute.

La situazione è davvero così grave?

Non mi voglio soffermare, come già fatto innumerevoli volte, sulla sesta estinzione di massa e sul fatto che, secondo uno studio pubblicato pochi mesi fa, attualmente almeno 33 specie animali e 39 specie di piante non hanno più popolazioni selvatiche e sono tenute in vita solo in zoo, acquari, giardini botanici, banche dei semi e altre istituzioni. Voglio parlare, questa volta, del report pubblicato dalla Earth Commission, che rappresenta il tentativo più ambizioso di combinare i segni vitali del Pianeta con gli indicatori del benessere umano.

Al suo interno, Johan Rockstrom e colleghi spiegano come le attività umane abbiano spinto il Pianeta in una sorta di zona d’allarme dopo che ben sette degli otto indicatori di sicurezza e giustizia planetaria sono stati recentemente superati. Oltre alle perturbazioni climatiche, infatti, il documento presenta prove inquietanti del fatto che la Terra si trova ad affrontare crisi crescenti in quanto a disponibilità di acqua, carico di nutrienti, mantenimento degli ecosistemi e inquinamento da aerosol: tutti fattori che minacciano la stabilità dei sistemi di supporto alla vita e peggiorano l’uguaglianza sociale.

Ma che senso ha che l’occidente fatichi tanto e poi, nel Sud del mondo, la questione ambientale non è neanche lontanamente percepita?

Di recente ho trascorso qualche settimana in Guatemala, immersa completamente nella cultura delle popolazioni Maya che arricchiscono di tradizioni e bellezza quello che è uno dei paesi più poveri e affascinanti del Centro America.

Lì ho avuto la possibilità di confrontarmi con chi, senza libri né conferenze, televisione o internet, ha saputo spiegarmi con una lucidità disarmante gli effetti che la deforestazione continua ad avere sulla salute degli ecosistemi e delle loro comunità, oltre che sulla loro sussistenza. Questo perché, nella terra resa arida dall’assenza di piogge, circondata dalle monocolture e dall’uso massiccio di pesticidi, non cresce più nulla… Nemmeno yucca e fagioli.

Siamo abituati a convivere con un confine mentale ben tracciato che divide i Paesi ricchi e quelli poveri, quelli consapevoli da quelli ignoranti, quelli proni al dovere da quelli indisciplinati… Ma cosa succederebbe se provassimo a cambiare prospettiva e se, per esempio, non basassimo più una questione scottante come quella del debito estero sui soldi ma sulle risorse naturali?

È quanto prova a fare chi studia il concetto di debito ecologico, che considera il danno agli ecosistemi e lo sfruttamento delle risorse come fattore di indebitamento dei Paesi industrializzati nei confronti di quelli in via di sviluppo, depredati delle risorse e, troppo spesso, anche delle popolazioni locali. L’origine di questo sfruttamento, infatti, può essere fatta risalire all’epoca coloniale e alla costruzione di un modello agricolo, estrattivo e industriale tuttora in auge che ha annientato le piccole economie tradizionali locali.

È il caso della Malesia, le cui foreste sono state per lo più rase al suolo per far posto a piantagioni in grado di soddisfare la domanda di prodotti agricoli da parte di Gran Bretagna e Stati Uniti. A farne le spese, oltre alla popolazione locale, è stata la tigre della Malesia il cui habitat è stato cancellato e che ora è a grave rischio di estinzione nella Lista rossa dell’Iucn.

Perché, infine, è importante parlarne?

Ben lungi dall’aver compreso lo stato emergenziale in cui stiamo sopravvivendo, noi Sapiens abbiamo bisogno di rimettere le cose nella giusta prospettiva, di confrontarci e metterci in discussione. Perché dal dialogo nascono la conoscenza e l’occasione di trovare delle soluzioni condivise. Perché la cultura è l’unico strumento universale in grado di far comprendere la bellezza della natura e la sua importanza per il futuro dell’umanità.

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