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«Nessuno sceglie professioni d’aiuto se non ha avuto problemi in famiglia»

Emanuela Carniti, figlia di Alda Merini, racconta la madre, e il suo rapporto con la poesia
Emanuela Carniti
Emanuela Carniti
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21 marzo 2024 Aggiornato alle 11:30

La poetessa dei Navigli, che oggi avrebbe compiuto 92 anni, ha avuto una vita drammatica ed eccezionale. Gli anni dell’infanzia erano quelli del fascismo, suo padre Nemo fu confinato in seguito al rifiuto di adesione al regime.

Negli anni dell’adolescenza ci furono i primi malesseri psicologici: durante l’età dello sviluppo non percependo la sua figura gradevole decise di non mangiare più diventando anoressica e questo le causò un esaurimento nervoso: nel 1947 il primo internamento nella casa di cura Villa Turro, ma nello stesso anno iniziò anche la frequentazione dei salotti letterari che incoraggiarono il suo talento.

Alda Merini ha sempre scritto in versi sin dalla tenera età, una enfant prodige scoperta da Giacinto Spagnoletti e apprezzata da grandi intellettuali e letterati. Lo stesso Pier Paolo Pasolini nel saggio critico Una linea orfica, pubblicato sulla rivista Paragone n.60 del 1954, recensendo il primo libro della poetessa La presenza di Orfeo (Schwarz, 1953), la definisce “ragazzetta milanese” proprio per sottolineare la sua giovinezza e scrive :“l’età addirittura prepuberale in cui la Merini ha cominciato a scrivere i suoi versi orfici, così settentrionali […] di fronte alla spiegazione di questa precocità, di questa mostruosa intuizione di una influenza letteraria perfettamente congeniale, ci dichiariamo disarmati”.

Una donna eccentrica, generosa, ironica e anche insopportabile. Questo e molto altro emerge, con estrema sincerità, dal libro Alda Merini, mia madre (Manni editore, 2019) scritto dalla figlia Emanuela, la maggiore delle quattro.

Il libro si apre con una sua poesia. Due versi risuonano molto forti “perché la donna che era in te/io mai conobbi tutta intera”. Può raccontarci la madre, la donna, la poetessa Alda Merini?

Nessuna figlia e nessun figlio, forse, conosce fino in fondo la propria madre perché il rapporto non è alla pari. Mia mamma come donna era molto complessa, come mamma è mancata nel senso classico del termine, ma lei ne era consapevole. Non era una madre molto presente, come si intende normalmente una madre che si occupa a tutto tondo dei figli, della famiglia: tenendo conto del contesto, parliamo degli anni Cinquanta, la donna era comunque ancora legata a un ruolo abbastanza tradizionale.

Lei era sposata con la poesia, che era un dono, è sempre stato un dono. La poesia era il suo paradiso, ma anche il suo inferno. Era qualcosa che quasi la possedeva, come qualcosa di estraneo. Io credo che lei avesse questo dono altrimenti non si spiega come a 10 anni avesse già preso un premio come prima poetessa italiana dalla Regina Maria José e come non si spiega che giovanissima fosse già nell’antologia Poesia italiana contemporanea 1909-1949.

Scriveva in una modalità impensabile per un’età così giovane, quindi in questo senso la vivo come un genio. Lei idealmente ha cercato di essere una brava mamma e una brava moglie e ha provato a farlo. Mio padre era un uomo classico, le voleva bene ma non la capiva fino in fondo. Forse sarebbe stato meglio se non avesse avuto figli o comunque non si fosse sposata.

Comunque il suo ruolo preponderante che ha portato avanti fino alla fine è stato quello di poeta, di poetessa, con una caparbietà ammirevole, non si è mai arresa. La poesia era il suo daimon, era la sua vita. Le è costato ed è costato a tutti.

Durante l’infanzia le è stata affibbiata l’etichetta: “la figlia della matta”. Quanto ha influito il giudizio degli altri e come l’ha combattuto?

Il giudizio degli altri mi ha coinvolto molto per tutta la vita, tuttora mi coinvolge. Quando ero piccola mi vergognavo, mi sono vergognata per anni perché ovviamente nessun figlio vuole che il proprio genitore sia preso di mira: ma se finivi in manicomio era un marchio. La zona dei Navigli non era quella di oggi, era un quartiere di povera gente ma anche molto inclusivo, c’era di tutto un po’: artisti, barboni, prostitute, ladri. Era un mondo a sé quella zona, era accogliente, però la malattia mentale, siccome faceva molta paura, era una etichetta che non veniva accettata, quindi la persona veniva messa in disparte soprattutto se era stata anche ricoverata poi in manicomio, perché allora c’erano soltanto i manicomi.

Adesso invece mi vergogno in un altro senso (ride ndr) cioè provo a tirarmi fuori, quando posso, dalla popolarità della mia mamma perché sia in un caso sia nell’altro la gente non ti vede, vedono “il figlio di” e non vedono come sei tu e questo è un problema che ti porti nella vita.

Un ricordo d’amore nonostante gli anni difficili?

Le cose positive non sono state tante a dire la verità, però mia mamma aveva un senso dell’umorismo molto spiccato che per fortuna mi ha trasmesso. Rideva così di gusto per delle stupidate tanto da coinvolgere anche te. Ma anche nei momenti drammatici, piangeva, era angosciata e poi, quando il momento passava, raccontava l’ultima barzelletta e tu ridevi. Ecco il suo umorismo è uno dei ricordi più belli che ho perché era capace di farti anche ridere, non solo piangere.

Religiosità ed erotismo, ma anche attenzione per le figure marginali e i “diversi” sono temi ricorrenti nella poetica di sua mamma. Una poesia che scava nella totalità dell’esistenza e affiora anche nei suoi scritti di prosa

Sì è vero, questo aspetto tra il mistico e il carnale emerge in quasi tutte le sue opere e credo che lei sia rappresentativa in questo momento perché cercava di mettere insieme quella che è la nostra dualità: siamo anima e carnalità. Lei era combattuta tra questi due aspetti della sua personalità. Nonostante fosse più forte il misticismo, era comunque una persona a cui piacevano le cose belle della vita: il cibo, il sesso, la bellezza. Credo che la grande difficoltà, forse, sia stata quella essere ancora molto indottrinata rispetto alle cose che ci hanno insegnato con il cattolicesimo. Però questo Dio che lei vedeva sempre come un Dio punitivo frenava probabilmente la sua spiritualità che invece era più ampia, non voleva essere relegata nei dogmi.

Credo che la sua poesia abbia cercato di ritrovare l’unità ed è quello che forse l’ha fatta amare anche dai giovani, nonostante la sua poesia non sia di così facile lettura.

La poesia è stata più forte degli elettroshock?

Certo, più forte di qualsiasi cosa. È stata anche la sua ancora di salvezza, quella che le ha dato la spinta per leggere quest’esperienza e farla diventare un’opera d’arte. Anche per l’aiuto di un medico in particolare, il dottor Gabrici, a cui lei ha dedicato poi un libro Lettere al Dottor G., che ha colto questo suo bisogno e le ha dato modo, pur essendo ancora in manicomio, di scrivere: le ha messo a disposizione il suo studio e la macchina da scrivere. Tra gli elettroschock, gli psicofarmaci, il ricovero improvviso e coatto è crollata completamente e, grazie anche al sostegno di questa persona, ha potuto non sentirsi schiacciata del tutto. Lei ha sempre scritto, anche negli anni in cui andava e veniva dagli ospedali, il problema era che gli editori l’avevano messa da parte perché quella della malattia mentale essendo un’etichetta molto pesante l’aveva isolata tutti.

Dopo la Legge Basaglia, lei si è specializzata come infermiera psichiatrica

Nessuno sceglie professioni d’aiuto se non ha avuto problemi in famiglia: in realtà vuoi curare te stesso ma non te ne accorgi inizialmente. Non a caso ho lavorato prima in ospedale però con l’introduzione della legge Basaglia ho chiesto aspettativa. Il primo centro a Omegna l’ho aperto io e negli anni ho capito che era un modo per curar me stessa.

Come ha vissuto e come vive la popolarità di sua madre?

Sto cercando di farci pace. Tutti i figli vogliono liberarsi dal gioco famigliare, ma purtroppo nessun frutto cade lontano dall’albero. In più, se hai un personaggio importante come genitore, cerchi di liberarti per fare una tua strada e creare una tua identità. Ma poi ti accorgi che devi accettare i tuoi genitori nel bene e nel male, ricordando che tu sei comunque un’altra persona.

Alda Merini è stata una persona tanto eccentrica quanto generosa. Donava soldi e ospitalità e spesso disseminava banconote in casa con l’intento di nasconderle. Qual è il posto più improbabile dove sono spuntate?

Le aveva ovunque, quando le teneva addosso le metteva nel reggiseno. In casa erano dappertutto. Aprivi un cassetto trovavi 100 euro, magari prendevi una tazza e uscivano venti euro, era un po’ come quando fai la caccia al tesoro. A lei piaceva il denaro ma non ne era legata (e infatti lo perdeva pure). Era, peraltro, molto generosa. C’è una sua poesia famosa che dice “Io non ho bisogno di denaro. / Ho bisogno di sentimenti. / Di parole, di parole scelte sapientemente”. La poesia era ciò che le bastava e che le riempiva completamente la vita.

Qual è il suo rapporto con la poesia?

(Ride ndr). Il mio rapporto con la poesia è un po’ambivalente: non ritengo e non penso sia la mia strada scrivere poesie. Ho scritto un libretto anni fa spinta dal compagno di quel momento e da una delle mie sorelle, e sono stata contenta di averlo pubblicato, erano poesie dedicate a mia madre, poco dopo la sua morte. Scrivo da quando sono ragazza per me stessa, non per pubblicare.

Un oggetto e un luogo che le ricordano sua mamma?

Sicuramente la Casa Museo Alda Merini che hanno istituito in via Magolfa a Milano: uno spazio dove ci sono anche alcuni suoi oggetti tra cui il pianoforte, il letto e il muro degli angeli dove c’erano scritti numeri di telefono, frasi, vignette umoristiche.

La canzone che suonava più spesso al pianoforte?

Lei amava molto le canzoni del primo Celentano, amava molto Dalla e la canzone L’anno che verrà. Al pianoforte suonava però un po’ di tutto.

Le Lac de Come di Giselle Galos era la canzone che ha accompagnato sempre la sua vita: iniziava sempre con quella e poi continuava con la Sonata al chiaro di luna di Beeethoven, Le Rapsodie Unghersi di Liszt.

Vorrei poi aggiungere che Giovanni Nuti ha musicato le poesie della mamma elevando ulteriormente la sua opera e l’ha fatta conoscere a un pubblico più grande. Questo matrimonio artistico è durato 16 anni e ha dato vita anche a spettacoli che tuttora girano per l’Italia.

In un’intervista la poetessa milanese afferma che l’arte della fotografia consiste nel mettere a fuoco il silenzio. Giuliano Grittini è stato il suo fotografo ufficiale, insieme hanno condiviso vent’anni di vita, quindi una profonda amicizia, e avventure indimenticabili.

«Sono grata a Giuliano di avere penetrato con la sua fotografia la mia anima e questo ha destato in me un grande sentimento d’amore» scriverà nell’introduzione della poesia L’Arte è una bellissima donna.

Quando conosce Alda Merini?

Era la fine degli anni Ottanta, inizio anni Novanta. Ma la cosa più strana e più misteriosa è che io ero molto amico del fratello Ezio Merini, già negli anni Settanta.

Come impostava il lavoro con la poetessa dei Navigli? Erano foto di posa o perlopiù spontanee?

Erano spontanee, tranne quando si metteva nuda per farsi fotografare, ma lo sceglieva lei e allora erano scatti di posa. Lei era così, una donna di una libertà totale. Ho tante fotografie sue completamente inedite, alcuni negativi ancora in diapositiva.

Cosa hanno in comune, secondo lei, poesia e fotografia?

Tantissimo, infatti nei miei quadri coesistono le poesie di Alda Merini e insieme il muro di Merini, conosciuto come “il muro degli angeli”. Quando è scomparsa, nel 2009, sono andato a casa sua, che era vuota, e ho fotografato tutti i muri. Nelle mie opere, amo mettere insieme poesia e fotografia: entrambe sono unite dalla stessa forma d’arte.

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