E tu, parli la lingua della parità di genere?
Quando entri in una stanza, come saluti le persone? Di solito “Ciao a tutti” è la versione più utilizzata, no?
Quando parli di professioni politiche, scientifiche, giuridiche o di ruoli dirigenziali, pensi mai alle loro versione femminili? La deputata, la ricercatrice, l’avvocata, la manager: quanto spesso utilizzi questi termini?
Lo abbiamo detto e ridetto: le parole sono importanti, perché capaci di dar forma alle cose e veicolare idee, pensieri, stereotipi. E la parità di genere passa anche (ma non solo) attraverso il linguaggio.
C’è chi si impegna ogni giorno a dare peso a ciò che dice o scrive e chi, invece, magari semplicemente per abitudine, non ci fa caso. Quindi “Ciao a tutti” e “Chi è il manager dell’azienda?”.
Nella prima categoria rientra WeWorld, organizzazione italiana indipendente, da 50 anni impegnata a garantire i diritti di donne e bambini in 27 Paesi del mondo. In vista dell’8 marzo (Giornata internazionale dei diritti della donna), ha realizzato il sondaggio Parole di parità - Come contrastare il sessismo nel linguaggio per abbattere gli stereotipi di genere, riguardo l’uso sessista del linguaggio tra bambini, bambine e adolescenti, condotto nei propri centri educativi tra gennaio e febbraio 2023.
Non ci sono solo uomini: il maschile universale
Uno dei temi toccati dall’indagine di WeWorld è il maschile universale, ovvero la tendenza di utilizzare sempre la desinenza maschile anche quando parliamo con e di donne. Solitamente succede più agli uomini (43% contro il 29% delle donne) e non solo tra gli adulti: 1 adolescente su 3 saluta dicendo “Ciao a tutti” anche quando i maschi sono la minoranza.
Questa espressione viene utilizzata soprattutto dai ragazzi tra gli 8 e i 10 anni (100%), tra gli 11 e i 13 (48%), 14 e 16 (54%); la percentuale scende tra i 17enni e 19enni (21%) che preferiscono utilizzare nel 21% dei casi la semplice formula “Ciao”.
Situazione diversa per le donne, che preferiscono eliminare del tutto le parole “tutti/tutte” (questo vale per il 67% nella fascia 8-10 anni, per il 64% tra i 14 e 16, per il 45% tra i 17 e i 19 anni); eccezione per le ragazze tra gli 11 e i 13 anni che invece utilizzano entrambe le formule. Sono sempre le donne, poi, a scegliere la versione più inclusiva: “Ciao a tutti e tutte”.
Questo è un lavoro da maschi
Ci sono alcune professioni che al femminile suonano male, ma solo in apparenza: esiste l’avvocata, la magistrata, la poliziotta, la calciatrice, l’imprenditrice, la Prima Ministra, la Presidente, esattamente come esistono le versioni maschili dei lavori “da donna” (l’ostetrico, il maestro, il ginecologo, l’infermiere).
E il vigile del fuoco? Forse la vigile o vigilessa? Secondo l’analisi di WeWorld, più di 6 intervistati e intervistate su 10 credono che questo sia un mestiere maschile. Ma non è l’unico caso: solo il 3% dei ragazzi e il 4% delle ragazze associa la parola “Presidente” a una professione da donna. L’insegnante, invece, il 38% delle volte è associata alle donne e solo il 2% agli uomini.
Quando parliamo di genere e professioni inciampiamo spesso (e di nuovo) nell’ambito del maschile universale: meno di 2 persone su 10 declinano le professioni al femminile quando parlano (il 26% dei maschi non le declina mai, contro l’8% delle donne).
Uomo e donna: dammi 3 parole
Durante le interviste, WeWorld ha chiesto ai e alle partecipanti di utilizzare 3 parole per descrivere i maschi e le femmine.
Per le bambine e le ragazze, una donna è una persona che ha forza, coraggio, intraprendenza, responsabilità, intelligenza. Per le più piccole, è anche una mamma e indossa i tacchi e il rossetto, mentre le adolescenti le hanno associato le parole “lotta”, “lavoro”, “emancipazione”.
Per i bambini una donna ha i capelli lunghi (come distinguerle altrimenti dagli uomini?) e, anche in questo caso, è una mamma o una casalinga. Da questo esperimento, inoltre, sono emersi anche 2 termini riconducibili al sessismo benevolo: “da proteggere” o “multitasking”.
Non sorprende che in diversi casi la donna venga associata alla maternità e alla cura della casa: gli stereotipi di genere, infatti, duri a morire, sono diffusi anche tra le nuove generazioni. Per il 14% dei maschi intervistati, un uomo che si prende cura della casa, dei figli e delle figlie è un “mammo” (che fine ha fatto il papà?) contro il 4% delle ragazze, mentre 1 intervistato o intervistata su 5 definisce una “donna con le palle” una persona forte e capace nel suo lavoro.
Per descrivere gli uomini, invece, le bambine e le ragazze hanno utilizzato parole associate al mondo del lavoro, ma anche a caratteristiche negative (bugiardo e arrogante). Inoltre per i bambini, i maschi non sono solo papà, ma anche nonni, zii e fratelli. Per i più grandi, sono le persone che portano tutto il peso e le responsabilità sulle proprie spalle.
Per essere davvero paritari, partiamo dall’educazione
L’educazione è il primo passo da fare, l’arma principale per combattere il sessismo e gli stereotipi nel linguaggio. Eppure il 18% degli intervistati e delle intervistate (1 su 5) non parla di parità di genere a scuola; il 61% lo fa ogni tanto. Invece, dovrebbe essere la regola.
Per questo motivo, WeWorld propone di istituire (grazie all’aiuto del Ministero dell’Istruzione, del Ministero dell’Università e della Ricerca e del Dipartimento per le Pari Opportunità) percorsi curriculari obbligatori di educazione alla parità, al rispetto delle differenze e al contrasto degli stereotipi, dalla prima infanzia ai licei, per bambini e bambine, adolescenti, giovani e personale scolastico.
Per gli studenti universitari, invece, dovrebbe esserci un momento di educazione in tutti quei percorsi che introducono studenti e studentesse in un ambito professionale in qualche modo sensibile alla tematica (medici e mediche, infermieri e infermiere, avvocati e avvocate, operatori e operatrici sociali).
Ma, per iniziare, partiamo dalle parole. Un passo alla volta.