Diritti

Dobbiamo liberarci del mito della maternità

Valorizza le donne in quanto madri, impegnate nel lavoro di cura a scapito delle loro carriere e del loro benessere mentale. Come spiega nel suo nuovo libro “Non è un Paese per madri” la ricercatrice Alessandra Minello
Credit: Pablo Pozer
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19 giugno 2022 Aggiornato alle 06:30

Di madri e maternità si continua a parlare tantissimo. Se ne parla anzi oggi ancor di più, proprio perché – da fatto naturale e ovvio – gravidanza e nascita sono diventate qualcosa di eccezionale per le donne italiane. Qualcosa a cui si rinuncia volontariamente in un piccolo numero di casi, mentre nella maggior parte delle volte lo si fa perché non ci sono i mezzi. Mancano i soldi, manca il lavoro, a volte manca un compagno.

A dare una descrizione precisa del problema, con interpretazioni e spunti nuovi, arriva il libro della ricercatrice in Demografia dell’Università di Padova Alessandra Minello, dal titolo efficace e immediato Non è un Paese per madri (Laterza).

L’originalità del libro sta soprattutto in questo: unisce “struttura” e “cultura”, considerandole due facce della stessa, identica medaglia. La struttura sono i servizi che mancano, gli asili che non ci sono o chiudono presto o costano troppo. Struttura è, anche, il lavoro, che è precario, sottopagato rispetto a quello maschile, ha orari inconciliabili con la maternità, oppure ancora peggio – per una donna su due, Italia tra le ultime in Europa – proprio non c’è.

Sicuri che la maternità sia un master per il lavoro?

Di fronte a questo scoraggiante panorama, di cui fanno parte anche i miseri congedi parentali per il padre, l’autrice sottolinea responsabilità e colpe della politica. Ma forse l’aspetto più interessante del libro è la messa in luce dell’aspetto culturale del problema, un aspetto che – se non risolto – non potrà mai sbloccare la soluzione dei problemi principali. E il principale ostacolo culturale è il “mito della maternità”. Che ha molte, diverse, facce.

Dal punto di vista sociale, significa che le donne sono valorizzate in quanto madri, mentre al tempo stesso non sono mai considerate interscambiabili nella cura con i padri. Questo fa sì che, di fatto, le donne si occupino più dei bambini e questo ha delle ricadute pesanti sul loro lavoro. Perché, e qui l’autrice lancia una sottile critica alla “maternità come master”, se è vero che partorire e crescere figli dà moltissime competenze in più, non sembra pagare molto in termini di carriera.

Ma il problema è che il mito della maternità - vuoi per consolazione, vuoi per tradizione - è profondamente incastonato anche nelle donne stesse. Dalle quali si pretende uno standard di cura molto elevato, anche rispetto ai paesi europei. Standard che loro, di fatto, rispettano, con conseguente enorme stress e fatica. Minello mette in luce non solo il carico fisico ma, anche e soprattutto, quello mentale, micidiale, che grava tutto sulle spalle delle donne.

Al tempo stesso, rompendo qualche convinzione politicamente corretta, l’autrice nota che anche le donne potrebbero vivere gravidanza e allattamento, i momenti più critici rispetto al lavoro, in maniera meno agonistica, cioè meno perfezionista: se è ovvio che non dobbiamo tornare in ufficio a tre giorni dal parto, aberrante modello Elisabetta Franchi, al tempo stesso occorre anche riconoscere che – per esempio – un allattamento molto prolungato nel tempo sicuramente non favorisce il lavoro.

Attenzione, qui l’autrice non invita le donne a essere “mamme imperfette”, secondo quella stanca retorica tanto in voga. Semmai, le invita a essere più realiste, e anche più lucide. Forse si può sacrificare qualche mese di allattamento ma non essere assenti troppo a lungo. Forse si può lasciare il bambino al nido (se c’è ovviamente) fin da molto piccolo, se questo può aiutare il lavoro.

E pazienza se in Svezia pagano le madri due anni per stare a casa. Purtroppo in Svezia non stiamo.

Togliere alibi alla politica

Naturalmente tutto questo non basta, però aiuta a diminuire gli alibi e a far emergere con più chiarezza i problemi strutturali, quelli che la politica, e le amministrazioni locali, devono risolvere e che spesso non hanno a che fare neanche con un problema di soldi, visti i milioni del Pnrr avanzati per i nidi perché non sono stati fatti abbastanza bandi.

Far fuori il mito della maternità, dunque, fa chiarezza. A quel punto, tra l’altro, si può chiedere davvero totale parità con il compagno, perché quando - finalmente - le donne non si sentiranno sminuite nell’essere realmente intercambiabili nel lavoro di cura, le cose potrebbero cominciare a mutare.

Invece, a oggi continuiamo ad avere questo: il poco e scarso lavoro fa sì che le donne che decidono di avere figli investano molto sulla maternità, anche come misura compensatoria dal punto di vista della gratificazione.

In questo modo però, la pressione per chiedere più welfare è più flebile e questo è un alibi per la politica e i sindaci. Si crea così un circolo vizioso che al momento forse possiamo solo cominciare noi a spezzare: guardando con realismo al tema della maternità, abbassando le aspettative su di noi, alzandole sugli altri.

E rinunciando al mito della “unicità” per scoprire che non ne vale la pena. Se vuol dire solitudine, stanchezza, poco e scarso lavoro, dipendenza economica da altri e tanta altra sofferenza. Non a caso, conclude l’autrice, facendo emergere un altro tema davvero tabù, da alcune ricerche sempre più si evidenzia questo: e cioè che le madri non sono necessariamente più felici delle non madri. Anzi, queste ultime godono di più libertà, maggiore leggerezza, più potere economico.

Un altro motivo per scegliere magari di essere madri, ma senza il mito della maternità.

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