Culture

La musica può salvare dalla guerra?

Il documentario Kissing the future, presentato alla Berlinale, racconta del concerto degli U2 a Sarajevo nel ‘97 e di come per molti sia stato il simbolo della rinascita degli abitanti della Bosnia-Erzegovina dopo la guerra
Bono of U2 performs in metro station in Kyiv
Bono of U2 performs in metro station in Kyiv Credit: EPA/OLEG PETRASYUK
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
21 febbraio 2023 Aggiornato alle 10:00

“Bottiglie rotte sotto i piedi dei bambini, corpi sparsi per la strada senza uscita”. Recitano così alcuni frammenti di Sunday Bloody Sunday, una canzone che sembra descrivere perfettamente ciò che sta accadendo oggi in Ucraina ma che in realtà gli U2 scrissero nel 1983 per raccontare la strage di civili irlandesi del 1972 da parte dell’esercito inglese.

Passano gli anni e cambiano le situazioni ma la guerra, almeno quella sul campo, rimane sempre tristemente uguale a se stessa, una distesa di corpi, disperazione e morte.

La band di Bono Vox, The Edge, Adam Clayton e Larry Mullen Jr si è spesso occupata della materia, a partire dall’album che conteneva Sunday Bloody Sunday chiamato proprio War ma anche dopo.

Del loro impegno pacifista si sta tornando a parlare in questi giorni, grazie all’uscita del documentario Kissing the future, che racconta l’incredibile e a tratti surreale storia che portò gli U2 a esibirsi in un concerto storico a Sarajevo nel 1997, a soli 2 anni dalla fine della guerra in Bosnia ed Erzegovina.

Diretta da Nenad Cicin-Sain e prodotta da Matt Damon, la pellicola è stata presentata in anteprima mondiale alla Berlinale, il Festival Internazionale del cinema di Berlino. Acclamata dai presenti in sala, non si limita a raccontare un evento ma porta in scena tutta la dignità di un popolo che dopo aver vissuto in una Sarajevo assediata ha saputo rialzarsi dalle macerie reali e metaforiche di un conflitto lungo e sanguinoso, spinto anche dalle note rock di un concerto che non ha avuto precedenti né successori, simbolo di rinascita e riscatto.

Quella «Sarajevo, fuck the past, kiss the future» urlata da Bono sul palco era stata vista allora da molti come il via ufficiale a una nuova vita, un grido di liberazione aspettato da troppo tempo.

Ma come sono arrivati gli U2 a cantare sul palco di un luogo all’epoca ancora complicato, nel quale nessun grande nome occidentale si era ancora esibito?

Lo spiega il documentario, una sorta di diario di memoria collettiva ricco di filmati del periodo e di interviste a persone coinvolte a vario titolo nella vicenda, alcune note come Bill Clinton e la giornalista Christiane Amanpour, altre no, che raccontano il loro vissuto nei giorni del conflitto.

Tra di loro il giornalista americano Bill S.Carter, inviato in Bosnia durante la guerra che dopo aver visto su MTV un messaggio di vicinanza di Bono Vox al popolo bosniaco decise di incontrarlo per parlargli della situazione. Così dopo averlo contattato via fax da parte dalla tv locale di Sarajevo lo raggiunse a Verona, dove era in programma una data del tour. Lì registrò un’intervista in cui il frontman della band raccontava la sua infanzia e adolescenza in un’Irlanda divisa e di come quei ricordi lo rendessero particolarmente sensibile alle sorti degli abitanti di Sarajevo.

È in quel momento che nacque l’idea di non manifestare più la vicinanza tramite gli schermi della tv o le pagine dai giornali, ma anche in mezzo alla gente con un concerto.

Era però il 1993 e il conflitto al suo picco. Non era quindi possibile ma per non lasciare che il silenzio calasse sulla sorte delle persone da quel momento ogni data del tour si aprì con un video di cittadini di Sarajevo che raccontavano ciò che stavano vivendo.

Un modo per monetizzare la guerra disse allora qualcuno, ma Bono e compagni non si scalfirono e nel 1997 si ricordarono della promessa di andare a stringere le mani al popolo bosniaco e così fecero, abbracciando simbolicamente quante più persone possibili, in un concerto diventato leggenda.

La musica non muore mai sotto lo bombe, anzi spesso rappresenta l’unica via di fuga mentale per le persone sotto assedio. Nascono canzoni tra i palazzi in fiamme, inni che diventano simboli stessi di quei conflitti e poi di tutti i conflitti. Oggi in Ucraina come ieri in Bosnia.

Kiss the Future fotografa proprio il potere della musica, che allora tenne uniti i bosniaci, con musicisti che si esibivano in club di fortuna nei sotterranei, in condizioni di pericolo, spesso oltre il limite, e che adesso fa lo stesso con gli ucraini.

Il documentario si chiude con le parole di una donna che all’epoca era adolescente: «oggi, ancora più di trent’anni fa, avremmo bisogno di un concerto come quello». Già perché la musica, da sempre, unisce ciò che la politica e le armi provano a dividere.

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