Diritti

In Italia si continua a morire per strada

Sono 387 le persone senza dimora decedute nel 2022, l’anno che ha registrato il più alto numero di morti. Superare la gestione emergenziale e dare priorità all’housing first potrebbe essere la soluzione
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17 gennaio 2023 Aggiornato alle 19:00

Ledjan Imeraj è il numero 387. Non sarà ricordata la sua morte avvenuta, l’ultimo giorno dell’anno, in una struttura di accoglienza per minori stranieri andata a fuoco a Pasian di Prato, in provincia di Udine. E probabilmente neanche la sua vita, iniziata 17 anni fa in Albania, sarà menzionata da qualcuno. Ledjan Imeraj esisteva per pochi. Proprio come Mario, 75enne italiano, che ha perso la vita in strada, a causa di un malore, a Bologna. E prima di loro, nell’anno appena concluso, altre 385 persone in Italia sono decedute senza nessuno accanto, passando i loro ultimi giorni in accampamenti di fortuna, su una panchina o nelle stazioni ferroviarie delle nostre città.

Il 2022 si conclude come l’anno con il numero più alto di morti tra le persone senza dimora. Ogni giorno si è registrato più di un decesso arrivando a quota 387. Ben 141 in più del 2021 e 179 rispetto al 2020. «I dati dicono che non si muore solo di freddo: quest’anno sono morte più persone d’estate che durante il periodo invernale», commenta a La Svolta Cristina Avonto, presidente della Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora (Fio.Psd.) che dal 2018, con il suo osservatorio, mappa i decessi tramite le segnalazioni delle organizzazioni che seguono i senzatetto su tutto il territorio nazionale.

È una tendenza che si osserva ormai da qualche anno: «Le persone senza dimora muoiono di stenti, di malattie, di abbandono e spesso di disperazione», spiega Avonto ricordando i casi di suicidi segnalati alla federazione. La maggior parte dei decessi però è causata da incidenti e da condizioni di salute precarie dovute alla vita in strada. «Quello che non funziona da anni è la logica emergenziale», segnala Avonto. La presenza in tutta Italia di dormitori notturni non è sufficiente a contrastare il fenomeno. Il fatto che queste persone siano ricoverate di notte, infatti, non toglie che trascorrano il giorno per strada con tutte le difficoltà e i rischi alla sopravvivenza che ciò comporta. «Fino a ora questo fenomeno è sempre stato affrontato con risposte “salva vita”, risposte a bassa soglia – aggiunge la presidente della Fio.Psd. –. Adesso però bisogna iniziare a ragionare con una logica di programmazione di medio periodo».

Questa logica prende il nome di Housing first. Si tratta di un modello di intervento nell’ambito delle politiche sociali per il contrasto alla grave marginalità, basato sull’inserimento di persone senzatetto in singoli appartamenti indipendenti per favorirne una graduale reintegrazione sociale. Secondo l’ultima indagine Istat la popolazione dei senza dimora in Italia è raddoppiata in meno di 10 anni, arrivando a quasi 100mila persone. In Europa l’incremento è stato pari al 70% tra il 2010 e il 2020. Per questo, a novembre 2020, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione contenente le linee guida per contrastare ed eliminare il fenomeno dell’esclusione abitativa entro il 2030.

L’obiettivo è di introdurre «piani d’azione e approcci innovativi – si legge nel testo – basati sul concetto per cui la casa è un diritto umano fondamentale». A tal fine gli Stati membri dovrebbero adottare il principio di Housing first che «aiuta – prosegue la risoluzione – a ridurre significativamente il fenomeno dei senzatetto», offrendo a chi vive condizioni di esclusione abitativa l’opportunità di entrare in un appartamento autonomo senza passare dai dormitori.

Il nostro Paese, tuttavia, fa i conti con una situazione a macchia di leopardo. Negli ultimi cinque anni il Ministero per le politiche sociali ha stanziato circa 100 milioni di euro (tra fondi europei e fondi ministeriali) per progetti di Housing first riconoscendolo nelle proprie linee guida come un approccio efficace alla marginalità sociale. Nonostante questo, però, in molti territori si predilige un approccio tradizionale al problema. «Per avere l’Housing first su tutto il territorio nazionale in maniera uniforme serviranno anni», precisa Avonto. Il sentiero, perlomeno, è tracciato: «Oggi ci sono le linee di indirizzo che obbligano le Regioni a occuparsene e i nuovi Lep (livelli essenziali delle prestazioni) secondo cui la residenza e la presa in carico socio-sanitaria sono diritti inalienabili». Si spera che le risorse attese dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) facciano il resto.

A fare scuola è stata la sperimentazione di Housing first avviata a Torino da alcune realtà aderenti alla Fio.Psd. tra il 2014 e il 2017. «I dati raccolti dicevano che le persone inserite in Housing first avevano una ricaduta nella condizione di homelessness del solo 5% dei casi e che le loro condizioni di benessere miglioravano velocemente», ricorda Cristina Avonto. Sono stati quei risultati ad aprire le porte dell’Housing first in Italia.

Oggi Torino conta circa 100 alloggi sul suo territorio. Sono luoghi sicuri per persone che per anni sono state abituate a dormire con un occhio aperto. Ma, soprattutto, sono il punto di partenza per chi soffre di problemi psichiatrici o di dipendenza. Sono persone che normalmente non potrebbero accedere ai dormitori: «L’Housing first nasce proprio per loro – spiega Avonto –. Le equipe costruiscono intorno a queste persone dei percorsi di recupero con una percentuale di abbandono bassissima». Si tratta di educatori e medici che, nella maggior parte dei casi, sono volontari o vengono pagati dagli enti che gestiscono le strutture. «La sanità nelle politiche sociali per le persone senza dimora è davvero la grande assente», osserva Avonto. È il segnale che c’è ancora molto da fare nelle politiche per l’abitare.

Ma è proprio questo il momento per farlo. L’aumento del numero di persone che ogni giorno muoiono per strada, infatti, è riconducibile all’incremento di uomini e donne che d’un tratto perdono casa e lavoro. «Quando si ritrovano improvvisamente per strada non hanno le “abilità” per sopravvivere in quelle condizioni: non sanno dove trovare il cibo, dove ripararsi, quali sono i posti sicuri», spiega Avonto. È una delle drammatiche conseguenze della povertà. «Le persone perdono la casa perché le case costano troppo», aggiunge la presidente della Fio.Psd.: «L’Italia non ha una politica pubblica di case accessibili, non ha creato strumenti affinché anche il patrimonio privato diventi accessibile per le persone a basso reddito». Sintomo che la casa, in Italia, non è ancora un diritto.

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