Diritti

Francia: l’arte diventa simbolo di un passato irrisolto

Un’inchiesta del New York Times svela l’esistenza di 18.000 teschi umani nel seminterrato del Musée de l’Homme. Resti appartenenti ai nativi delle ex colonie
Credit: museedelhomme.fr 
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29 dicembre 2022 Aggiornato alle 09:00

Il Musée de l’Homme di Parigi è un punto di riferimento mondiale per l’antropologia e i reperti preistorici; visitato ogni anno da centinaia di migliaia di visitatori, rischia di perdere il suo prestigio, dopo un’inchiesta del New York Times. Il seminterrato del museo ospita una collezione che la testata statunitense ha definito “controversa”: 18.000 teschi di capi tribù africani, ribelli cambogiani e indigeni dell’Oceania, ritrovati per la maggior parte nelle ex colonie francesi. La collezione comprende anche i crani di oltre 200 nativi americani, tra cui quelli delle tribù Sioux e Navajo.

I 18.000 teschi posizionati in scaffali metallici, oltre a costituire la più grande collezione al mondo, sono il simbolo di un passato irrisolto e non sempre chiarissimo. Ciò che ha dato impulso all’inchiesta della testata statunitense è il rifiuto del museo francese di rivelare informazioni sulle identità dei teschi, che potrebbero portare a migliaia di richieste di restituzione. Le informazioni, a ben vedere, esistono: non sono mai state rese pubbliche, ma sono state inserite parzialmente in documenti del museo ottenuti dal Times. In una nota confidenziale si legge che la collezione comprendeva, a esempio, le ossa di Mamadou Lamine, un leader musulmano dell’Africa occidentale del XIX secolo che guidò una ribellione contro le truppe coloniali francesi, una famiglia di inuit canadesi esposta in uno zoo umano di Parigi nel 1881 e persino 5 vittime del genocidio armeno.

Il primo che ha parlato di vero e proprio scandalo, in realtà, è stato un dipendente dello stesso museo, un linguista in pensione che ha lavorato per ben 4 decenni al Museo dell’Umanità. Ha raccontato che erano i supervisori a dire “Dobbiamo nasconderci, il museo ha paura dello scandalo”. E ancora, André Delpuech, ex direttore del museo, che ha lasciato l’incarico a gennaio, ha dichiarato che “I nostri musei dovrebbero fare un esame di coscienza”. Questo atteggiamento, ancor di più quando messo in atto da un’istituzione culturale, è il sintomo di un rifiuto della Francia nel fare i conti con la sua eredità coloniale. Esiste una polemica vera e propria interna ai grandi musei europei, i quali spesso hanno ostacolato le richieste di restituzione di oggetti provenienti da ex colonie o da popoli conquistati.

Sebbene molti Paesi (Germania, Paesi Bassi e Belgio hanno un protocollo chiaro) abbiano messo in atto con il tempo alcune politiche volte alla restituzione dei resti alle ex colonie, secondi i critici, il Museo dell’Umanità limita la ricerca sugli oggetti sensibili della sua collezione, nascondendo informazioni essenziali per le richieste di restituzione. Il museo adotta ancora quella politica di lunga data che prevede la restituzione solo di resti “nominalmente identificati”, cioè di frammenti di cadavere di una persona specifica con un legame con il richiedente.

Alcuni studiosi sostengono che si tratti di una tattica restrittiva volta a bloccare le restituzioni. Come altre istituzioni, il museo ha dovuto far fronte a crescenti richieste di rimpatrio, da Paesi come il Madagascar e l’Argentina, e da popolazioni indigene delle Hawaii. Ma, a differenza di molte altre istituzioni in Europa e negli Stati Uniti, la Francia ha restituito solo circa 50 serie di resti - anche in Sudafrica, Nuova Zelanda e Algeria - negli ultimi 2 decenni.

Questa politica, tuttavia, non è condivisa da altri musei europei e “non ha una chiara base legale”, come si legge nella nota riservata del museo. Inoltre contraddice un rapporto del 2018 commissionato dal governo, anch’esso ottenuto dal Times, che raccomandava di considerare restituibili i resti anonimi che potevano essere collegati a una famiglia o a un gruppo indigeno (il rapporto, che incoraggiava la Francia a prendere una posizione proattiva sulla restituzione, non è mai stato reso pubblico e le sue proposte non sono mai state attuate).

Reperti della scienza razziale

Nel corso del XIX secolo, gli storici e gli archeologi raccoglievano oggetti e reperti in tutto il mondo e li depositavano nei musei europei, senza preoccuparsi di ostacolare la ricostruzione della storia. I teschi venivano raccolti durante gli scavi archeologici e le campagne coloniali, talvolta anche dai soldati che decapitavano i combattenti della resistenza; quest’attività era la base della cosiddetta “scienza razziale”. I ricercatori apprezzavano particolarmente queste raccolte, ma successivamente, con il progressivo abbandono di questo approccio scientifico del tutto infondato, molti dei resti caddero nell’oblio. Anzi, nelle scatole di cartone del Museo dell’Umanità.

Già nei primi anni 90, con la creazione del primo database elettronico della collezione, si identificarono centinaia di teschi che il curatore Mennecier definì “potenzialmente litigiosi”: resti di combattenti anticoloniali e di indigeni, raccolti come trofei di guerra o saccheggiati dagli esploratori. Si iniziava a capire che i popoli privati dei loro reperti avrebbero cominciato a voler ricostruire pian piano la loro storia e la memoria dei propri antenati. Uno degli aspetti più problematici della vicenda è stato, ed è tuttora, il palese disinteresse delle autorità governative internazionali, e il rifiuto di comunicare con le comunità indigene.

L’ostruzionismo delle istituzioni francesi

Lefèvre, alto funzionario del Museo di Storia Naturale che supervisiona il Museo dell’Umanità, e Martin Friess, responsabile delle collezioni di antropologia moderna del museo parigino, hanno dichiarato che le informazioni sono state omesse per questioni di privacy, per timore di polemiche e per le incertezze sull’identità di alcuni resti. Ma diversi studiosi e legislatori hanno affermato che la posizione del museo deriva da una preoccupazione maggiore: che la trasparenza possa aprire le porte a richieste di restituzione. Giustificazioni non sufficienti, un modo di porsi che nasconde; dichiarazioni mendaci che mal celano l’atteggiamento privilegiato dell’Occidente che vuole continuare a raccontare la “sua” storia.

«È incredibilmente difficile capire cosa c’è nella loro collezione», ha dichiarato Shannon O’Loughlin, direttrice dell’Association on American Indian Affairs, un’associazione senza scopo di lucro che promuove il patrimonio culturale dei nativi americani. Il museo ha pubblicato solo una versione ridotta del suo database di crani, non condividendo nomi o dettagli biografici, anche se l’elenco visto dal Times contiene queste informazioni su centinaia di resti.

È significativa la testimonianza di Klara Boyer-Rossol, una storica che ha studiato i resti del Madagascar e che ha impiegato circa 10 anni per ottenere l’accesso completo al database. La vicenda ci dice molto della visione occidentale del mondo, della storia. Un’istituzione culturale della portata del Museo dell’Umanità di Parigi ha deliberatamente ostacolato la ricerca accademica, continua ad adottare una politica restrittiva, volta a limitare le richieste di restituzione. In poche parole, non vuole dialogare con “l’altra” parte del mondo.

A complicare le cose, gli oggetti delle collezioni dei musei pubblici sono di proprietà dello Stato francese e non possono cambiare proprietà a meno che la restituzione non venga votata per legge, un processo macchinoso che a volte ha portato la Francia a prestare i resti invece di cederne il possesso. Un rappresentante del ministero della Cultura francese ha dichiarato che i funzionari stanno lavorando a una legge di ampio respiro per regolare le future restituzioni di resti umani.

Ma Pierre Ouzoulias, senatore francese del partito di sinistra, che ha prodotto diversi rapporti sulla restituzione, ha detto che il Governo ha dimostrato tutt’altro che buona volontà. Ha respinto una proposta del Senato di istituire un consiglio scientifico consultivo sulle restituzioni e non ha ancora esaminato una legge approvata dal Senato a gennaio che eliminerebbe la necessità che il Parlamento approvi ogni restituzione. Ouzoulias ha ribadito questo timore durante una commissione parlamentare lo scorso anno e riferendosi ai teschi delle vittime del genocidio armeno, ha detto che la Francia rischia «un grosso conflitto diplomatico con alcuni Stati quando verranno a conoscenza del contenuto delle nostre collezioni».

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