Diritti

I confini sono muri di gomma

Le frontiere dovrebbero garantire sicurezza, ma questo non vale per tutti. Sono barriere impermeabili che separano famiglie, persone, minori. E, oggi, dividere non ha senso
Credit: Repertorio ANSA
Tempo di lettura 11 min lettura
28 agosto 2022 Aggiornato alle 06:30

La guardia costiera libica è pagata per monitorare gli ingressi nello stato italiano. Per quanto possa apparire assurdo è quanto previsto dal Memorandum of Understanding (MoU) on Migration del 2017, rinnovato nel 2020 per altri tre anni. Nel 2021, l’Italia avrebbe versato 10.5 milioni di euro di stanziamenti finalizzati a fornire al corpo marittimo libico strumenti e risorse per tenere i migranti lontani dalle coste del Sud Italia.

L’Unione Europea chiede a gran voce, a suon di quattrini e concessioni, ai Paesi della costa sud del Mediterraneo di custodire i suoi confini. Anche il Regno Unito punta a delegare la gestione della crisi migratoria, trasferendo i migranti che attraversano la Manica - con metodi che il governo definisce “illegali, pericolosi o non necessari” - in Rwanda dove verrà garantita loro la possibilità di richiedere e ottenere asilo.

L’esternalizzazione dei confini (ovvero l’insieme delle azioni economiche, giuridiche, militari, culturali messe in atto da soggetti statali e sovrastatali per impedire l’accesso dei migranti nel territorio di uno Stato) ci pone di fronte alla relazione tra questi e gli Stati-nazione, quindi al perché gli uni si appoggino agli altri e siano disposti a costruirvici sopra la propria condizione di esistenza.

I confini, dopotutto, sono elementi estremamente semplici, alcuni seguono il profilo di elementi naturali, come mari o montagne, altri la continuità storica o culturale, altri ancora un disegno normativo strutturato da stati terzi. Tutti hanno in comune la propria struttura pattizia. Per definirli potremmo dire che, più di tutto, sono un accordo di proprietà.

Integrando l’idea di Stato-nazione, inteso come quell’autorità che esercita sovranità su una continuità territoriale e chi la abita, possiamo vedere che, effettivamente, i confini stanno agli Stati come gli Stati stanno ai confini. Gli uni senza gli altri, non esisterebbero. Lo Stato è l’entità che amministra un diritto di proprietà all’interno del perimetro concordato con altre creature sue pari. La difesa dei confini, se non addirittura i confini stessi, sono assurti a simbolo della forza degli stati-nazione, più recentemente sono divenuti il terreno di gioco su cui le autorità statali stanno cercando di legittimarsi nuovamente agli occhi di chi li abita.

Dopotutto, mai come oggi gli Stati-nazione sono minacciati. Le esistenze, i flussi, le biografie e le famiglie transnazionali sono realtà capillari e quotidiane, frutto di aspirazioni e necessità individuali e al contempo collettive. Si capisce allora perché gli Stati che basano la propria identità su simboli di potere legati al controllo territoriale quanto a quello demografico ed etnico, si sentano effettivamente fragili, erosi nelle loro stesse forme essenziali, di fronte alla realtà della migrazione. Terrorizzati all’idea di risultare inadatti o obsoleti, vengono meno alle loro stesse promesse, modificando i significati stessi di concetti a loro cari come quello di “sicurezza”.

Dal 2001, abbiamo assistito a una cambio di paradigma repentino quanto radicale, per cui “controllo migratorio” è diventato sinonimo di “lotta al terrorismo”, e al contempo la sicurezza dei cittadini è sta intesa come sicurezza nazionale dei cittadini non razzializzati. Il processo di risignificazione ha seguito i profili della dottrina nazionalista, paradossalmente neo-liberista.

Infatti, come aveva già evidenziato James Hollifield, scienziato politico esperto in processi migratori, le economie liberiste chiedevano a gran voce capitale umano, ma si risolvevano a rifiutarlo in nome della sicurezza interna. Un paradosso che è stato in parte accettato grazie alla facilità dei processi di rimozione collettivi, ovvero quella chiacchiera continua modulata su slogan e parole accattivanti che svuota il discorso politico di significato e continuità storica.

La sicurezza, dunque, diventa la priorità dello Stato-nazione, già, ma la sicurezza di chi? Chi ha diritto alla sicurezza e, soprattutto, cosa significa sicurezza?

Secondo i report di Amnesty International e Medici Senza Frontiere, l’Italia finanzia un corpo militare estero, la sua formazione e una serie di strutture atte a trattenere i migranti. Strutture che sono dei veri e propri campi di detenzione forzata - di concentramento - in cui le persone subiscono maltrattamenti, torture, stupri e furti.

Un viaggio verso l’Europa, dopotutto, non è una cosa semplice. Per prima cosa avviene una selezione primaria, perché le famiglie tendono a razionalizzare e a investire il denaro verso quei membri che hanno maggiori probabilità di sopravvivere al viaggio e di lavorare una volta raggiunto il Paese di destinazione. Dopodiché iniziano le contrattazioni con le reti informali che, troppo spesso, finiscono con l’incanalare gli aspiranti migranti verso i gruppi criminali.

Una volta iniziato il percorso, a seconda della regione di partenza, la migrazione può richiedere dalle settimane agli anni. Durante il percorso le persone migranti si trovano a dover mediare tra il bisogno di lavorare per rimpinguare i risparmi con cui pagare i trafficanti, i furti operati da questi e le detenzioni. Detenzioni a cui, come racconta Ibrahima Balde nel suo Fratellino, romanzo scritto a quattro mani con Amet Arzallus Antia, si rischia di non sopravvivere. Perché oltre a costituire un business in sé, i migranti rappresentano una risorsa per ben altre industrie illegali connesse al traffico di esseri umani.

I finanziamenti italiani non solo tutelano e spesso foraggiano queste imprese, ma non fanno che aumentare la perigliosità del percorso. Infatti, all’aumentare della repressione degli spostamenti migratori nel Mediterraneo aumenta la complessità dei profili criminali attivi, in un circolo vizioso che ha come unico risultato l’aumento delle morti in mare e delle violenze subite dai migranti stessi.

I nazionalismi europei si nutrono della definizione di confine e rimbalzano le responsabilità rispetto a quanto accade nel Mediterraneo con invenzioni di concetto, tra cui spicca la condizione di illegalità. Costruire l’immigrazione illegale permette di porre le persone migranti in un’arena di colpa e criminalità, piuttosto che riconoscere lo stato di necessità e i conseguenti diritti da garantire loro. La criminalizzazione della migrazione è una narrazione di sistema, un racconto corroborato da norme che risponde a un duplice scopo: enfatizzare la necessità di una securitizzazione dei confini e il ruolo degli stati che la attuano.

I confini impermeabili, poi, rendono effettive delle divisioni che snudano ulteriormente i paradossi del nazionalismo. Con il rinforzo dell’identità di confine viene meno il diritto delle famiglie di esistere come tali. La separazione derivante dalla rigidità dei passaggi impedisce ai membri del medesimo nucleo familiare di vivere insieme, uniti. I diritti dei minori risultano vincolati al luogo di nascita degli stessi, garantiti se e solo se il minore di riferimento è già nato cittadino di uno stato europeo.

La selettività della cittadinanza, spesso proposta dagli Stati-nazione come un bene di lusso o come premio per chi risulta meritevole a sufficienza, separa sul piano legale e civile esistenze che altrimenti sarebbero condivise. Riconoscere il diritto alla cittadinanza a un solo membro di un gruppo familiare, per esempio, riduce la partecipazione politica di una famiglia a una cifra singola.

Il dibattito domestico, quindi, rischia di essere disincentivato, ma non solo. In queste contrazioni civili e politiche, si riconosce a un solo membro la libertà di muoversi, di esperire sia il tessuto sociale che quello civile. L’esperienza del mondo, come spazio della vita, ne risulta compromessa. Se solo i cittadini riconosciuti possono entrare e uscire da un territorio, come potranno i residenti vivere il mondo connesso correndo il rischio di rimanere bloccati all’esterno dell’ambiente che hanno scelto come casa? Più spesso non lo faranno.

Questo forse è il fulcro della discussione. La casa come scelta e la casa come entità plurale. Nonostante il liberismo si racconti come un sostenitore della famiglia basato sulla famiglia, nonostante i nazionalismi a cui si accompagna la pongano come nucleo sociale privilegiato, la famiglia in un mondo di stati chiusi non ha modo di esistere in maniera autonoma, libera e determinata. Se la migrazione è negata, viene meno la progettualità. La libertà da, per dirla con Amartya Sen, risulta erosa dalla parabola dei confini stagni.

Un individuo che desidera migrare, che infonde specifiche speranze in un Paese di approdo, dovrebbe godere del diritto inalienabile di raggiungerlo e realizzare la propria esistenza ove ritiene sia più consono e sicuro. L’articolo 12 della Dichiarazione universale dei diritti umani prometteva effettivamente che niente e nessuno avrebbe potuto intromettersi nella progettualità personale. All’articolo 13 specifica il diritto alla libertà di movimento, al 14 ricorda che tutti gli esseri umani devono vedersi garantire il diritto di sfuggire dalle persecuzioni e, ancora, al 15 sancisce il diritto per ogni persona alla cittadinanza.

Ora, la maggior parte degli stati-nazione impegnati a rendere i propri confini valicabili solo a determinate condizioni di ricchezza accompagnata da specifici passaporti, sono gli stessi che hanno sottoscritto quella medesima dichiarazione. E dunque, viene da chiedersi, se uno stato si basa su ciò che può garantire a chi lo abita, cosa ci suggerisce della sua salute il fatto che si impegni a non mantenere tali promesse?

L’obsoletudine dello stato-nazione come entità racchiusa in confini è palesata anche dalle modalità con cui esso cerca di resistere nonostante la società globale vada in direzioni diametralmente opposte a velocità per lui inarrivabili. I muri ne sono un triste esempio. Barriere fisiche mutilano la continuità terrestre nella speranza che la loro fisicità possa ciò che le norme e le dottrine non riescono più a fare: garantire l’immobilità di alcuni gruppi umani.

Dal muro tra Messico e Stati Uniti, che vanta tra l’altro il corpo militare più nutrito e dispendioso al mondo, a quello con cui Israele distrugge la continuità territoriale e comunitaria palestinese, passando per il recentissimo progetto polacco di murare il confine con la Bielorussia per arginare il flusso di migranti afghani, siriani e persone generalmente provenienti dai MENA fino alla costruzione di confini al bordo del Mediterraneo, con i muri storici di Ceuta e Melilla, ma anche con quelli virtuali derivati dalle linee di respingimento e negazione del soccorso nel Mediterraneo, gli Stati-nazione mostrano tutta la loro disperazione.

Nel fisico e nel comprabile investono l’impegno a reggersi in piedi, senza voler cogliere l’anacronismo di tali strutture e la loro comprovata inefficacia. La migrazione umana è una forza inarrestabile perché deriva da istanze talmente profonde e naturali da non poter essere in alcun modo cancellate come il desiderio di determinarsi e il bisogno di sfuggire a situazioni critiche, siano esse persecuzioni, guerre, devastazione ambientale o asperità climatiche.

Ciò a cui assistiamo oggi non è che l’esasperazione del desiderio degli Stati-nazione di negare la realtà dei fatti. Con l’esternalizzazione dei confini, la loro gestione per procura, invece che dimostrarsi forti e stoici come vorrebbero, queste entità stataliste e proprietarie stanno solo dimostrando di non essere più in grado di esistere secondo i loro stessi canoni. Pagano per la loro autorità dando in cessione la gestione dei confini.

Dopotutto, se uno Stato-nazione non garantisce sicurezza e non tutela i propri nazionali entro specifici confini, se questi accordi sono ormai possibili solo grazie a stati terzi e gruppi criminali, la solidità dello stato è palesemente compromessa. Specialmente perché la vera sicurezza è tale quando garantita per tutti, per chi arriva e per chi resta, per tutte quelle persone che condividono lo spazio e il piacere di abitarlo, al di là delle finzioni identitarie che lasciano il tempo che trovano.

Ciò che gli Stati dimostrano, con tutta questa fanfara di chiusura, non è forza, piuttosto la loro disarmante debolezza. Sono così fiacchi e ingrigiti che hanno bisogno di lasciar morire migliaia di persone per mantenere una parvenza di identità interna. Sono così incapaci di svolgere le proprie funzioni che devono ricorrere a metodi espulsivi di gestione della migrazione. La migrazione è un fenomeno antico, profondamente umano, necessario alla sopravvivenza e portatore di tutte quelle grandi modifiche sociali che hanno fatto progredire le società che sono state in grado di interagirvi positivamente. Esse sono l’espressione della propensione umana al cambiamento, alla ricerca e all’autodeterminazione.

Se entro il 2 novembre l’Italia non renderà l’accordo nullo, il 2 febbraio 2023 scatterà il rinnovo automatico. A gennaio di quest’anno i dati contavano 82.000 persone respinte dalla guardia costiera libica, stipendiata dall’accordo Ue. A maggio il numero aveva raggiunto gli 85.000 individui intercettati, forzatamente portati in Libia e trattenuti in campo di detenzione. 85.000 persone i cui diritti umani non sono stati garantiti.

Leggi anche
frontiere
di Caterina Tarquini 4 min lettura
Un migrante con la bocca cucita a Tapachula, in Messico.
frontiere
di Valeria Pantani 2 min lettura