Diritti

Michele Collareta: «Gino Strada era allegria, capacità di visione e scelta»

Il medico anestesista di Emergency racconta alla Svolta dell’incontro con l’uomo che fondò nel 1994 la Ong impegnata ad assicurare gratuitamente cure medico-chirurgiche alle vittime civili dei conflitti armati
L'artista di strada TvBoy durante la realizzazione del murales di Gino Strada No War in piazza di Porta Genova, Milano, 9 Settembre 2021
L'artista di strada TvBoy durante la realizzazione del murales di Gino Strada No War in piazza di Porta Genova, Milano, 9 Settembre 2021 Credit: ANSA/MATTEO CORNER
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
13 agosto 2022 Aggiornato alle 11:00

Serve un po’ di concentrazione per ripensare al 2021 e riordinare tutti gli eventi che sembrano distanti anni luce dal presente.

È stato l’anno del giuramento di Joe Biden, della conferenza sul clima a Glasgow, dell’assalto a Capitol Hill, delle Olimpiadi “azzurre” di Tokyo, della nave incagliata nel Canale di Suez, del ritorno dei talebani in Afghanistan. E della morte di Gino Strada.

Il 13 agosto di un anno fa se ne andava il medico, attivista, scrittore e fondatore, insieme alla docente e moglie Teresa Sarti, di una delle Ong che più si sono impegnate per assicurare gratuitamente cure medico-chirurgiche alle vittime civili delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà: Emergency.

Da allora l’impegno non si è mai esaurito. Lo racconta alla Svolta Michele Collareta, anestesista entrato a far parte della grande famiglia di Emergency nel 2016. È stato in missione in Sudan e a Kabul, dove ha incontrato Gino Strada in uno dei suoi ultimi viaggi in Afghanistan.

Collareta, 36 anni, ha scelto di avvicinarsi al mondo di Emergency perché risponde alla sua idea di medicina, quella stessa idea che aveva Gino Strada quando decise di portare a chiunque, indipendentemente dalla posizione geografica o dalle disponibilità economiche, un’assistenza sanitaria degna di questo nome.

Non a caso la nuova edizione del festival di Emergency si chiamerà “La scelta”. Si terrà a Reggio Emilia, dal 2 al 4 settembre, e tornerà con incontri e dibattiti in cui si alterneranno giornalisti, filosofi, scienziati, scrittori e rappresentanti dell’associazione italiana indipendente e neutrale nata nel 1994. Tutto graviterà intorno a un unico quesito, più attuale che mai: “Perché scegliere ancora una volta la guerra?”. Ancora una volta, dopo l’edizione precedente dedicata alla Cura come diritto e valore fondamentale per ricostruire il senso del vivere comune, Emergency riunisce le voci di chi crede che la pace sia una scelta realmente perseguibile a partire dalla conoscenza e dalla pratica quotidiana dei diritti umani. Così come sosteneva Gino Strada.

Michele Collareta, dove ha incontrato Gino Strada?

Le nostre strade si sono incrociate due volte. La prima a Khartum, la capitale del Sudan, era il mio primo giorno di lavoro a Emergency. Fui accolto proprio da lui, che per me era un mito e un riferimento da tanti anni: mi strinse la mano con un gran sorriso, e fui invaso dalla sensazione di essere entrato a far parte di qualcosa di bello, mi sentivo accolto. E poi l’ho incontrato di nuovo, ma questa volta eravamo a Kabul, in Afghanistan, nel 2018.

L’Afghanistan è stato una parte molto importante del suo impegno umanitario: Gino Strada vi ha trascorso sette anni, ha aperto lì il suo primo progetto, con il Centro chirurgico per vittime di guerra ad Anabah, nella Valle del Panshir, nel 1999. Si percepiva questo legame?

Gino aveva con l’Afghanistan un rapporto privilegiato. Era un posto del cuore, aveva legami stretti e solidi non solo con lo staff e le persone di cui ci occupavamo, ma anche con gli afghani che aiutavano Emergency nelle sue missioni. Era un profondissimo conoscitore del tutto: conosceva perfettamente la storia recente del Paese, le sue dinamiche. La sua attenzione non era focalizzata su chi comandasse, ma sulle necessità delle persone: ricevere cure è loro un diritto, curare è un nostro dovere, e questo a prescindere dal quadro politico del Paese. Che comandi uno o l’altro, in Afghanistan bisogna rispondere a delle necessità di base della popolazione: questo è sempre stato l’obiettivo di Gino.

È già passato un anno dalla sua scomparsa, crede che sia cambiato qualcosa all’interno di Emergency?

Un padre fondatore con una leadership simile, così carismatica, e con dei grandi progetti di visione è chiaro che sia insostituibile. Ma resto profondamente convinto che Emergency possa camminare con le proprie gambe grazie al modo in cui è stata pensata e messa insieme: la capacità di creare un gruppo, di riunire dei professionisti che sappiano e vogliano lavorare insieme è una parte molto sottovalutata ma altrettanto consistente del nostro lavoro. Ma, anche in questo, Gino era un maestro: lui aveva una visione prospettica, sapeva che una persona a proprio agio lavora anche meglio. Ci ha lasciato il suo metodo e di certo l’obiettivo di Emergency o il modo in cui questo viene perseguito non cambia.

Se dovesse spiegare a qualcuno com’era Gino Strada, che parole userebbe?

Sicuramente la parola simbolo del Festival di Emergency che si terrà a settembre: scelta. Gino, di fronte ai dilemmi e ai problemi che la vita gli poneva davanti, non li rifuggiva, chiedeva a se stesso e agli altri di prendere una posizione, di fare una scelta. E poi mi vengono in mente altre due cose, non comuni: la sua capacità di visione, come dicevo, quasi architettonica, di vedere uno spazio vuoto e sapere subito come riempirlo. E la sua allegria. Nonostante tutta la sofferenza incontrata, il carico di dolore affrontato, le difficoltà di una vita stressante a livelli che pochi possono anche solo immaginare, era una persona che lasciava spazio alle cose belle della vita, al mangiare bene, allo stare in compagnia, alla buona musica. Non si lasciava mai sopraffare dalla cupezza.

Crede che il suo lavoro e il suo impegno siano stati riconosciuti abbastanza?

Nel lavoro di un medico e nel lavoro umanitario ciò che ti interessa è sapere di aver aiutato qualcuno, di aver salvato una vita, di aver migliorato l’esistenza delle persone che incontri: penso che questo fosse l’unico riconoscimento che interessava a Gino, la riconoscenza da parte dei pazienti, dei popoli dei Paesi in cui lavorava. Al di là dei riconoscimenti più “istituzionali” di tutti questi anni.

C’è qualcosa, in particolare, che Gino Strada le ha insegnato e che si porterà con sé?

Mi ha insegnato a vedere tante cose insieme: quando arrivano molti pazienti feriti da un’esplosione, per esempio, non puoi concentrarti solo ed esclusivamente su uno alla volta, devi avere una visione d’insieme e curarli al meglio sapendo che sei in un determinato contesto e devi ragionare nell’ottica di un ospedale. Per la mia professione è un insegnamento davvero prezioso. Come lo è la capacità che aveva di prendere una decisione all’istante, ed è qualcosa che non impari da un giorno all’altro. Grazie a lui ho la sensazione di fare cose belle e giuste stando bene: nonostante sia un percorso pesante, sono contento di averlo scelto, lo rifarei, lo rifarò in Sudan per altri due anni se tutto va bene. E sono certo che anche Gino avrebbe rifatto tutto uguale.

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