Diritti

In Sudan torna la lapidazione per adulterio

L’ultima volta (nota) risale al 2013. Ora, una ragazza di 20 anni è stata condannata a morte ma gli attivisti per i diritti umani denunciano che non le è stato concesso un processo equo
Credit: AFP
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
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18 luglio 2022 Aggiornato alle 18:00

Non si vedeva una condanna per lapidazione per il reato di adulterio da quasi dieci anni in Sudan. La donna in questione ha solo 20 anni.

Maryam Alsyed Tiyrab è colpevole di aver violato l’articolo 146/2 del Codice penale del Paese, che risale al 1991. Lo riporta l’African Center for Justice and Peace Studies, un’organizzazione per i diritti umani nata nel 2009 in risposta alle espulsioni di alcuni gruppi della società civile internazionale e nazionale in Sudan dopo l’arresto del presidente e dittatore Omar Hasan Ahmad al-Bashir.

Quell’anno la Corte penale internazionale dell’Aja lo accusò di crimini di guerra e contro l’umanità per le violenze nel Darfur, dove centinaia di migliaia di persone, a partire dal 2003, vennero massacrate, mutilate ed eliminate per essersi opposte al governo centrale e aver chiesto l’indipendenza.

La sentenza deve ancora essere approvata dall’Alta Corte sudafricana: l’African Center for Justice and Peace Studies ha invitato le autorità sudanesi a revocare la condanna a morte per lapidazione perché viola il diritto nazionale e internazionale e chiede di garantire il rilascio immediato e incondizionato di Tiyrab, oltre a un processo equo.

La donna si era separata dal marito ed era tornata a casa della sua famiglia. Sarebbe stata interrogata da un investigatore della polizia che avrebbe ottenuto illegalmente una sua confessione, non informandola che le informazioni da lei condivise durante l’“interrogatorio” sarebbero state utilizzate come prova contro di lei durante il processo.

Il processo, poi, avrebbe avuto delle irregolarità: secondo l’organizzazione sarebbe iniziato senza ottenere una denuncia formale dalla polizia di Kotsi, nella zona centrale del Paese, all’interno dello Stato del Nilo Bianco. Le autorità non le avrebbero nemmeno spiegato l’accusa e la sanzione prevista.

Inoltre, le sarebbe stato negato un rappresentante legale: un atto che si scontra con il codice di procedura penale sudanese, per cui un imputato ne ha diritto in qualsiasi procedimento penale che preveda una pena di 10 anni o più di reclusione, morte o amputazione (una forma di punizione corporale ancora ammessa nel Paese).

Secondo il Guardian si tratta della prima condanna a morte per lapidazione per adulterio da circa dieci anni. La donna avrebbe fatto ricorso: la maggior parte delle condanne punite in questo modo, prevalentemente contro le donne, vengono annullate dall’Alta Corte.

Gli attivisti temono, però, che la sentenza sia una conseguenza del colpo di stato militare di ottobre, che avrebbe incoraggiato i legislatori a sgretolare i diritti che le donne si sono guadagnate sotto il governo di transizione del Paese, successivo al rovesciamento di Omar al-Bashir, avvenuto solo dopo la rivoluzione del 2019.

L’African Center for Justice and Peace Studies spiega che nel luglio 2020 il governo di transizione ha annunciato riforme significative della legge penale locale, compresa l’abrogazione delle disposizioni che prevedono la punizione della fustigazione.

Ma, l’anno dopo, un colpo di Stato da parte di un gruppo di militari ha messo fine al tentativo di democratizzazione del Paese, annunciando la riforma di alcune delle leggi penali e delle politiche della Sharia, i principi etici e morali islamici.

Le riforme non includevano la lapidazione, ma il 10 agosto del 2021 agosto il Paese ha ratificato la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite contro la tortura: perciò l’esecuzione per lapidazione come forma di tortura sanzionata dallo Stato costituisce una violazione degli obblighi del Sudan in materia di diritti umani.

L’ultima volta (nota) che una donna è stata condannata alla lapidazione per adulterio era il 2013: la sentenza, poi, è stata annullata. È tutto nelle mani dell’Alta Corte.

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