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Perché il cambiamento climatico amplifica le guerre?

Secondo l’ultimo Environmental Risk Outlook il climate change non aumenterà solo l’intensità di ondate di caldo, tempeste e inondazioni, ma anche l’instabilità globale. Spingendo sempre più Paesi al conflitto
Credit: Steve-McCurry
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
16 agosto 2022 Aggiornato alle 19:00

Non solo siccità, tornado e alluvioni. In base ai dati emersi dall’ultimo Environmental Risk Outlook, pubblicato da Verisk Maplecroft, il cambiamento climatico aumenterà anche l’instabilità globale, spingendo sempre più aree del Pianeta al conflitto.

Secondo il report, che riassume le questioni più urgenti di rischio ambientale, nemmeno i Paesi del ricco Occidente sono immuni: anche loro, pur sembrando protetti dagli impatti secondari dei cambiamenti climatici, non hanno le garanzie per proteggere le loro società dai rischi legati al peggioramento delle condizioni meteorologiche estreme.

«I governi stanno iniziando a creare ampi piani di mitigazione per le minacce al clima fisico, ma i bassi livelli di investimento nell’analisi dei rischi secondari mostrano che la maggior parte è quasi del tutto impreparata ad affrontare gli impatti politici, economici e sullo sviluppo più ampi di un pianeta in fase di riscaldamento», ha affermato Will Nichols, responsabile del rischio climatico e della resilienza di Verisk Maplecroft.

Disordini civili, instabilità politica, insicurezza alimentare, migrazioni di massa, peggioramento dei diritti umani e aumento dei conflitti sono gli impatti secondari intrinseci del cambiamento climatico, ma governi e imprese non sembrano considerare questi effetti nel loro approccio alla lotta al riscaldamento globale.

Man mano che gli eventi meteorologici estremi che il mondo sta già vivendo diventano più frequenti, questi rischi climatici di secondo ordine si diffonderanno sempre più in un’ampia fascia di Paesi.

Un rischio che potrebbe riguardare, a esempio, le principali economie emergenti come l’India e l‘Indonesia, vulnerabili agli effetti a cascata dei cambiamenti climatici e scarsamente preparati per queste minacce. Anche nazioni economicamente e geopoliticamente strategiche come Brasile, Messico, Vietnam e Russia, però, si trovano in una posizione pericolosa e anche la Cina potrebbe finire sotto pressione se il cambiamento climatico continuasse ad accelerare.

Se Paesi come questi dovessero soccombere ad attacchi estremi di instabilità indotta dal clima, gli impatti a catena potrebbero sopraffare le economie e le popolazioni in tutto il mondo, conclude il report.

Gli effetti climatici immediati come lo stress idrico e il fallimento dei raccolti possono portare alla lotta per le risorse e a migrazioni di massa, fenomeni che possono sfociare in disordini civili, instabilità politica e guerre, uno scenario che si è verificato in Siria dopo la peggiore siccità degli ultimi 900 anni.

Ma il caso della Siria non è isolato: l’estrema siccità ha portato a rivolte sociali, sfollamenti di massa e violenze anche in Mali, mentre in Venezuela la cronica scarsità d’acqua e le inondazioni costiere hanno accelerato il tracollo socioeconomico nel Paese con le più grandi riserve di petrolio del mondo.

Identificare dove questi impatti saranno prevalenti e quali Paesi sono più a rischio è fondamentale: per questo, il rapporto ha valutato la vulnerabilità di 196 Paesi, analizzando 32 criticità, tra cui l’esposizione a calamità climatiche, la sicurezza delle risorse naturali e la povertà estrema, combinando dati provenienti da diverse fonti, tra cui le Nazioni Unite e la Banca mondiale.

I Paesi sono quindi stati classificati come “precari”, “vulnerabili” o “protetti” dagli impatti climatici a cascata.

Non sorprende che il gruppo “protetto” comprenda prevalentemente gli Stati più ricchi del mondo, mentre il gruppo “vulnerabile” sia composto prevalentemente da quelli con redditi più bassi.

Tutta l’Asia meridionale e la maggior parte del sud-est asiatico sono considerati vulnerabile, mentre Cina, Vietnam e Malesia sono considerati precari.

Anche i Paesi protetti – gli Stati Uniti, gran parte dell’Europa, Giappone, Corea del Sud e Singapore – però, non possono ritenersi immuni dagli impatti politici, economici e sociali del cambiamento climatico che, spiega il report, non riconoscono le frontiere e hanno la capacità di superare i confini: Stati teoricamente “protetti” come Singapore, a esempio, potrebbero finire per affrontare gli impatti a catena della vicina Indonesia, come una migrazione di massa.

Tuttavia, sono gli Stati che risiedono nel gruppo “precario” quelli in cui «la metaforica diga presenta fratture che potrebbero indebolire la loro forza strutturale complessiva e, in definitiva, la loro capacità di rispondere a grandi scalare le minacce emergenti».

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