Diritti

Elena Biaggioni, D.i.Re: «La base della violenza è una discriminazione nei confronti delle donne»

L’avvocata e vicepresidente della rete, che riunisce 87 organizzazioni in Italia che gestiscono 106 centri antiviolenza e 62 case rifugio, ha spiegato a La Svolta che l’8 marzo «non è una festa, ma una giornata che ci ricorda quanto ancora c’è da fare in materia di uguaglianza»
Elena Biaggioni, Vicepresidente di D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza e avvocata 
Elena Biaggioni, Vicepresidente di D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza e avvocata 
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 8 min lettura
8 marzo 2024 Aggiornato alle 12:15

La violenza ha un genere. Lo vuole ribadire, ancora una volta, D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza in occasione della Giornata internazionale dei diritti delle donne. La rete riunisce 87 organizzazioni sul territorio italiano che gestiscono 106 centri antiviolenza e più di 60 case rifugio, ascoltando ogni anno più di 20.000 donne.

In Italia 1 donna su 3 subisce o ha subito una qualche forma di violenza: per questo, D.i.Re sostiene che le attività per contrastare la violenza di genere debbano essere realizzate tenendo conto di questa specificità, valorizzando l’esperienza dei centri antiviolenza e delle attiviste che vi operano.

La Svolta ne ha parlato con la vicepresidente di D.i.Re, l’avvocata Elena Biaggioni.

In concomitanza della Giornata Internazionale dei diritti delle donne si diffonde lo slogan: “L’8 marzo è ogni giorno”. Oggi è così?

No non lo è, ma dovrebbe esserlo. Facciamo un passo indietro: che cos’è l’8 marzo? La Giornata internazionale della donna. Quindi non è una festa, è una giornata che ci ricorda quanto ancora c’è da fare in materia di uguaglianza, parità, non discriminazione. Quindi ci ricordiamo ogni giorno di questo gap? Dell’importanza della parità, uguaglianza e non discriminazione? Non credo, ovviamente. C’è sicuramente una maggiore attenzione.

Da quando?

Il tema della violenza maschile contro le donne ha avuto il picco di attenzione non solo dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, ma mi sento di dire dopo l’intervento di sua sorella Elena, che io credo ricorderemo come uno spartiacque culturale per noi, per l’Italia.

Elena Cecchettin ha acceso i riflettori sul tema del patriarcato, che prima sembrava un termine poco conosciuto dai media.

Si, concordo, e l’ha fatto anche sul tema del femminicidio con una chiarezza (anche in seguito a quello che era successo) deflagrante. E questo è importante. Non è che i media non sapevano cosa fosse il patriarcato, è che non usavano questo termine, mentre ora non dico che sia stato sdoganato, ma sicuramente usato molto di più nella dimensione culturale.

Le donne che si rivolgono a voi, principalmente, che tipo di violenza hanno subito?

Le donne che ci contattano sono prevalentemente donne che si trovano in una situazione di violenza e vogliono uscirne. Principalmente sono situazioni di violenza domestica che sommano tanti tipi di forme di violenza e di maltrattamenti: la principale che ci raccontano è quella psicologica, poi fisica, economica e sessuale, in quest’ordine di ricorrenza. La violenza sessuale è l’ultima di cui le donne riescono a parlare. Ai centri antiviolenza, poi, si rivolgano anche genitori, parenti, amici della donna che subisce violenza per chiedere come fare ad aiutarla. In questo, per la mia esperienza, c’è anche più attivazione, e questo è significativo per noi perché saper anche seminare attenzione è molto importante. Sono tutte porte che si aprono per quando una donna deciderà di uscire.

Intorno alle celebrazioni come l’8 marzo o il 25 novembre, ricevete più richieste rispetto al resto dell’anno?

Tra il 25 novembre e dicembre, per mia esperienza, so che c’è un aumento. Più presenza e più diffusione, comportano più attivazione. Per quanto riguarda l’8 marzo, non lo so. Quando se ne parla di più, è più facile che ci siano contatti diretti: la nostra rete è fatta di contatti territoriali, quindi ogni volta che un centro antiviolenza ha la possibilità di mostrarsi, di raccontarsi, di parlare del tema, di fare sensibilizzazione, è più facile che si creino dei contatti. Faccio un esempio banale, ma ogni volta che qualcuna di noi interviene, dappertutto, c’è sempre una donna che alla fine si avvicina e dice: “Grazie, sono contenta di aver creato questo contatto. Posso parlare con il centro?”. È così che si crea la presenza sul territorio, la risposta ai bisogni.

Il 30% delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza della vostra rete prosegue poi il cammino con la giustizia. Come si dovrebbe intervenire per aumentare il dato?

Si tratta di una cifra addirittura sotto al 30% e riguarda la giustizia penale, il famoso “le donne denunciano”. Ogni volta che una donna racconta la propria storia ci dovrebbe essere sempre qualcuno pronto ad ascoltarla. Sarebbe fondamentale abbassare i livelli di vittimizzazione secondaria e quindi rendere il percorso meno complesso. Deve essere meno dura attivare un percorso giudiziario. D’altro canto è anche vero che il percorso giudiziario ha regole e necessità completamente diverse. Quello che noi diciamo sempre è che da un lato bisogna credere di più alle donne e fare in modo che i percorsi siano meno faticosi, quindi abbattere la vittimizzazione secondaria a ogni livello. Dall’altro, però, dobbiamo ricordarci che si può uscire dalla violenza in tanti modi. Per esempio, si dice sempre di denunciare, ma quante volte in una separazione danno ordini di protezione in sede civile? O al tribunale per i minorenni? Poche. Quindi vanno messe insieme un po’ tutte queste cose. E bisogna anche lavorare sulla formazione di tutti i soggetti coinvolti.

Secondo il comitato Cedaw - Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, le donne affrontano anche molte discriminazioni legate alla salute sessuale e riproduttiva, temi che ancora oggi vengono sottovalutati, o meglio attaccati. Perché?

Non è una questione di sottovalutazione, sono scelte politiche. Sanno benissimo che cos’è il diritto a decidere sul proprio corpo. Non è che non c’è consapevolezza. Sono scelte politiche di chi non lo accetta e non lo vuole. Ricordiamoci sempre che la base della violenza è una discriminazione nei confronti delle donne. La violenza è un modo per continuare a tenere le donne discriminate. Un esempio su tutti: il lavoro. Meno donne lavorano, più è facile fare in modo che non escano da situazioni di violenza, perché diventano dipendenti dal partner economicamente. Oppure: più donne subiscono violenze sul lavoro e meno fanno carriera: perché devono pensare non solo a lavorare, ma anche a tenere a bada e scansare tutta la situazione di violenza. Il collegamento tra le due cose è particolarmente importante: c’è molta attenzione sulla violenza, ma meno sulle radici di questa violenza, di come fa parte di tutta quella situazione patriarcale che cercano di non vedere.

Con l’Università di Trento avete lavorato a un progetto di didattica sulla violenza di genere, si intitola Legal opinions on gender-based violence by the students of the school of international studies. Che risultati sono emersi?

Prima di tutto, dal nostro punto di vista, ogni volta che abbiamo a che fare con studenti e studentesse è arricchente perché ci si contamina a vicenda. In questo caso avevamo fatto delle domande specifiche su temi a cui siamo interessate ma che non sempre riusciamo a seguire come vorremmo, a selezionare la bibliografia, a fare il punto della situazione. Studenti e studentesse si sono confrontati prima con il tema della violenza maschile contro le donne e poi hanno fornito dei pareri su questioni concrete. Offrendoci nuovi strumenti e nuove prospettive.

In particolare, ragazze e ragazzi dell’università, che in questo caso ha dato una collaborazione potentissima, hanno analizzato tre temi: le misure provvisorie nei casi di violenza di genere di fronte agli organi di controllo dei diritti umani (il più complesso, perché c’è tantissimo materiale); il riconoscimento della violenza contro le donne come forma di tortura (c’è un comitato contro la tortura che quando tratta di un Paese, guarda anche al tema della violenza nei confronti delle donne); la giustizia riparativa, che sappiamo essere uno dei grandi temi della riforma Cartabia (che, all’articolo 42, la definisce come “ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore, ndr).

Ragazzi e ragazze hanno raccolto un po’ tutto quello che c’è negli organismi e nei meccanismi internazionali a riguardo: le volte in cui si è espressa la Cedaw (che è il più importante strumento internazionale giuridicamente vincolante in materia di diritti delle donne, ndr), il Comitato contro la tortura, lo Special rapporteur in materia di violenza contro le donne. Ci sono tantissimi spunti molto interessanti.

Come rete D.i.Re, che racchiude 87 associazioni, ognuna delle quali opera in più territori, parteciperete alle manifestazioni organizzate oggi?

Molte delle associazioni che gestiscono centri antiviolenza e case rifugio aderiranno alla mobilitazione indetta da Non Una Di Meno come già negli anni scorsi. Non so dirle con precisione quante e con che modalità. Nella ricchezza delle relazioni sui territori e le loro reti e le attività organizzate.

Per oggi è stato indetto anche uno sciopero generale da diverse sigle sindacali, che coinvolgerà anche scuole e trasporti in nome della parità di genere, contro il divario salariale e i femminicidi. Sui social non sono mancate le proteste in merito, che l’hanno definita “l’ennesima scusa”. Che ne pensa?

Questo discorso si può applicare a tutto, però. Io guardo con ispirazione all’Islanda, dove a fine ottobre le donne hanno protestato contro le violenze di genere e per la parità salariale. Lì si è fermato un intero Paese e non l’8 marzo, ma in un giorno qualsiasi, per toccare con mano il fatto che quando si fermano le donne si ferma tutto, si blocca un Paese. Non tutte lo potranno fare, ovviamente, ma avrebbe un significato potentissimo, come lo ha avuto in Islanda.

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