Economia

Facciamo come le islandesi!

Nel Paese le donne incrociano le braccia per ottenere la parità salariale e fermare la violenza di genere. E se lo facessimo anche noi?
Lo sciopero delle donne islandesi nell'ottobre del 1975
Lo sciopero delle donne islandesi nell'ottobre del 1975 Credit: Ólafur K. Magnússon
Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
Tempo di lettura 4 min lettura
24 ottobre 2023 Aggiornato alle 09:30

Ai giorni nostri, l’Islanda è un vero e proprio punto di riferimento per chiunque si occupi di parità di genere. Anzi, essendo da 14 anni in vetta alla classifica del Global Gender Gap Report del World Economic Forum, ci provoca anche quel filo di irritazione da “prima della classe” (soprattutto considerando che l’Italia, quest’anno, è precipitata in 79° posizione).

Ma forse non tutti sanno che non è sempre stato così: le donne islandesi hanno ottenuto il diritto di voto nel 1915 (solo dopo la Nuova Zelanda e la Finlandia), ma dopo 60 anni le donne in Parlamento erano solo 9. E nel 1975 le parlamentari erano solo 3, ovvero il 5% del totale, a fronte del 23% degli altri Paesi nordici.

Come si è arrivate alla situazione odierna, allora?

Il 24 ottobre del 1975, con un gesto che rimane nella storia, le donne islandesi proclamarono un giorno di fermo nazionale. E la pensarono bene anche sotto il profilo del marketing, presentandolo non come uno sciopero, ma come un giorno libero. Libero non solo dal lavoro retribuito, ma anche dalle attività di cura: per 24 ore, nessuna di loro avrebbe preparato pasti, pulito case, preparato, accompagnato o ripreso figli e figlie da scuola o dalle varie attività.

Leggendo i giornali dell’epoca, si racconta di un Paese paralizzato: code interminabili al ristorante, padri “costretti” a portare i propri bambini in ufficio. Pare che le salsicce (particolarmente facili da cucinare) andarono sold out.

La giornata libera (al quale aderì il 90% della popolazione femminile) fu indetta per dimostrare il ruolo fondamentale delle donne nella società islandese e per reclamare la parità salariale. Un gesto potente, accompagnato da una marcia a Reykjavik a cui parteciparono in circa 25.000 (su un totale, ricordiamolo, di 220.000 persone che rappresentavano l’intera popolazione nazionale). L’impatto di questa azione dimostrativa fu talmente evidente che la giornata rimase alla storia come “il lungo venerdì”. E un anno dopo, passò una legge che garantiva pari diritti a uomini e donne.

Perché ne parliamo oggi?

Perché nonostante gli evidenti progressi in tema di equità di genere (e le lezioni che il Paese potrebbe impartire a tutti gli altri), tuttora le donne islandesi guadagnano in media poco più del 64% di quanto guadagnano gli uomini.

E quindi, oggi torneranno a incrociare le braccia, fermandosi sia sul posto di lavoro che in casa. Per reclamare la parità salariale, certo, ma anche per dire basta alla violenza contro le donne perché, nonostante tutto, il 40% delle islandesi sperimenta violenza di genere o sessuale almeno una volta nell’arco della propria vita.

Le organizzatrici sottolineano 2 fattori fondamentali rispetto alla presenza delle donne sul mercato del lavoro. Il primo: le donne lavorano prevalentemente in settori sottopagati. Il secondo: a impattare sulla concreta possibilità delle lavoratrici di ottenere pari retribuzione è, ancora una volta, il carico del lavoro di cura non retribuito. Ed è arrivato il momento di affrontarli entrambi.

La cura

Come semprem quando si parla di donne e lavoro (retribuito e non), l’elefante nella stanza è il lavoro di cura. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il 75% delle attività di cura non retribuita è ancora oggi sulle spalle delle donne.

E se volessimo monetizzare tutto il lavoro di cura che le donne, nel mondo, forniscono gratuitamente, arriveremmo a circa 12.000 miliardi di dollari, secondo Oxfam. Ma le donne non si prendono cura solo in casa: spesso la cura diventa il loro lavoro.

Effettivamente, secondo Eurostat, l’84% delle donne occupate in Europa lavora nel settore della cura (qualche esempio? Maestre, insegnanti e così via). E ancora una volta, si tratta di lavori fragili e sottopagati.

Lo facciamo anche noi?

C’è da dire che in Islanda sanno come si fa: la giornata è dedicata non solo alle donne, ma anche alle persone non binarie, perché “tutte stiamo combattendo la stessa battaglia contro il patriarcato”, come sostengono le organizzatrici.

Lo slogan della giornata è “Tu questa la chiami parità?”. Alla mobilitazione prenderà parte perfino la prima ministra Katrín Jakobsdóttir, per mostrare la propria solidarietà alle donne islandesi.

Una delle richieste di questa manifestazione è che venga sancito per legge l’obbligo di rendere pubblici e trasparenti gli stipendi proprio in quei settori a elevata presenza femminile, nei quali la remunerazione delle donne tende a essere più bassa.

Ma se le donne si fermano in Islanda, mi dico io… Perché non lo facciamo anche noi?

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