Diritti

WeWorld lancia il Manifesto per la giustizia mestruale

Dal linguaggio con cui parliamo del ciclo all’abolizione della Tampon Tax, passando per l’educazione sessuo-affettiva e il congedo dal lavoro: ecco i 6 punti fondamentali per combattere la period poverty secondo la Ong italiana
Credit: Karolina Grabowska
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
21 febbraio 2024 Aggiornato alle 11:00

Ogni mese 1,8 miliardi di persone in media hanno le mestruazioni; parliamo di quasi il 23% della popolazione mondiale. Eppure, i tabù e i pregiudizi che ancora accompagnano un processo fisiologico e perfettamente naturale sono tantissimi.

Dall’incapacità di chiamarle con il loro nome all’imperativo “nascondi di averle!”. Dall’invalidazione del dolore (che a volte è talmente forte da impedire di vivere normalmente la quotidianità) agli stereotipi per cui “sei nervosa, hai le tue cose?”. Per non parlare della menopausa: passiamo anni a dover fingere di non avere il ciclo mestruale e poi, quando finisce, continuiamo a vergognarci.

Pensare che siano solo innocui pregiudizi e retaggi arcaici sarebbe un errore. Gli effetti sono estremamente concreti, riassumibili in quella che viene definita period poverty o povertà mestruale. Spesso se ne parla in relazione a tutte quelle persone che non possono accedere, per diverse ragioni, ai prodotti mestruali (assorbenti, tamponi, coppette, ecc.), all’acqua, a spazi e strutture adatte a gestire le mestruazioni.

Ma, spiega WeWorld, si tratta di una questione ben più ampia: “non è solo una questione di costi: anche non ricevere informazioni adeguate rispetto alla gestione del proprio ciclo mestruale, il non poter scegliere liberamente per il proprio corpo, il persistere di tabù e stereotipi sull’argomento, il dover rinunciare a praticare sport, a uscire, a partecipare a occasioni sociali per vergogna o imbarazzo sono tutte manifestazioni di povertà mestruale”.

Per questo, la Ong italiana ha lanciato un Manifesto per la giustizia mestruale. Questo significa riportare al centro le mestruazioni e le persone che le hanno. Per farlo, però, è necessario prima di tutto un cambiamento di prospettiva, che parte dal riconoscimento del fatto che “tutte le sfide connesse a un’adeguata gestione del ciclo sono parte di un problema più grande e sistemico: le mestruazioni non sono una questione personale, ma una questione di diritti umani e salute pubblica”.

Prima di elencare i 6 punti fondamentali per ottenere la “giustizia mestruale”, però, il manifesto fa una (fondamentale) premessa: nel testo si parla di “persone” e non di “donne” perché non tutte le donne hanno le mestruazioni e non solo le donne hanno le mestruazioni. Le donne trans, a esempio, non le hanno, ma potrebbero averle alcuni uomini trans, anche se si stanno sottoponendo a un trattamento ormonale. Non solo: anche alcune donne cisgender, per diversi motivi, potrebbero non avere più o non aver mai avuto il ciclo mestruale, così come alcune persone intersessuali. Senza dimenticare le persone non-binarie, che non si riconoscono in nessuno dei due generi.

Le parole che usiamo sono importanti. Per questo, il primo punto del Manifesto è proprio dedicato al linguaggio che utilizziamo quando parliamo di mestruazioni. Per rompere il tabù, “Chiamiamole con il loro nome, chiamiamole tutt3”. Basta “le mie cose, il marchese, le rosse”. Niente più perifrasi e giri di parole: non abbiamo paura a utilizzare le parole giuste e, soprattutto, non abbiamo paura a farlo tutte, tutti e tuttǝ: le mestruazioni non sono solo una questione che riguarda chi le ha, ma ognunǝ di noi.

E un’altra parola (o, meglio, un hashtag) è quella associata al punto numero 2: #FermalaTamponTax, ovvero l’imposta sui prodotti mestruali. A lungo tassati come i prodotti di lusso, oggi assorbenti, coppette, dischi, tamponi ecc. hanno un’Iva del 10% (come la carne, i frutti di mare e la birra). Dopo una riduzione al 5% nel 2022, la Legge di Bilancio 2024 ha rialzato la tassa. Dobbiamo portare l’Iva allo 0%, dice invece WeWorld.

Ma questo non basta: sono necessari prodotti mestruali gratuiti in tutte le scuole e negli edifici pubblici, aggiunge il terzo punto dell’elenco. Non è una richiesta utopica, ma “una questione di salute pubblica e di diritti umani, che permette di combattere la povertà mestruale e vivere le mestruazioni con dignità”.

Come utopica non dovrebbe essere la richiesta al punto 4: educazione sessuo-affettiva nelle scuole, “per prendere decisioni consapevoli sui propri corpi, sviluppare relazioni sociali e sessuali rispettose e assicurare la giustizia mestruale”. Eppure, lo abbiamo visto pochi mesi fa quanto sia una sfida realizzarla concretamente.

Punto 5: “prendiamoci cura”. Non è vero che i dolori mestruali sono sopportabili, né che siano uguali per tuttǝ o che chi ha le mestruazioni debba essere costrettǝ a stringere i denti e andare avanti. Per alcune persone, la sofferenza può diventare invalidante. “Per questo, chiediamo di inserire la sindrome premestruale e le altre patologie legate al ciclo mestruale tra i Livelli essenziali di assistenza (Lea)”.

Riconoscere che i dolori possono impedire lo svolgimento normale delle attività quotidiane è un passo fondamentale anche per il punto 6: il congedo mestruale. Uno strumento che già esiste in diversi Paesi (come Spagna, Giappone e Corea del Sud) e che permette alla persona con mestruazioni la possibilità di prendere ferie o di usufruire di giorni di malattia extra e retribuiti dal proprio impiego e/o lavorare in maniera flessibile.

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