Economia

Il fotovoltaico europeo è a rischio?

Con una capacità produttiva del 2%, la produzione manifatturiera di impianti made in Ue rischia di rimanere soffocata dalle esportazioni cinesi, in costante aumento e a costi bassissimi
Credit: EPA/ALEX PLAVEVSKI
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7 febbraio 2024 Aggiornato alle 10:00

Il percorso verso la decarbonizzazione e la riduzione delle emissioni inquinanti si presenta ancora ricco di insidie, soprattutto dal punto di vista economico.

Se da un lato le fonti rinnovabili si candidano ad assumere un ruolo di spicco per soddisfare la domanda energetica di famiglie e imprese dell’Unione europea, con proposte di obblighi di pannelli solari su tutti gli edifici e il temuto accordo sulle case green, il mercato della produzione sostenibile di energia elettrica non sembra tenere troppo in considerazione le imprese europee.

Il leader assoluto, capace di sfiorare con un dito il monopolio, rimane infatti la Cina, che nonostante le varie turbolenze macroeconomiche vissute negli ultimi mesi mantiene saldo in mano la fetta più grande, pari al 70% della produzione di moduli fotovoltaici a livello globale, con una export del 55% in oltre 200 Paesi.

Alla base di una presenza così dominante da parte della Repubblica Popolare Cinese c’è un enorme investimento di oltre 50 miliardi di dollari con 300.000 posti di lavoro coinvolti in tutte le fasi della produzione dei pannelli fotovoltaici.

In generale, tra manodopera e spese generali estremamente ridotte, i costi di produzione risultano più bassi del 35% rispetto allo scenario europeo. Un vantaggio che si riverbera anche sul prezzo finale del prodotto e che assicura al mercato cinese il dominio assoluto dell’intera filiera green, dalle materie prime alla componentistica, fino ai pannelli fotovoltaici completi, con costanti aumenti della propria capacità produttiva.

Il distacco è abissale con l’Europa, che - stando ai dati di SolarPower Europe - nel 2022 presentava una capacità manifatturiera pari al 2% di quella mondiale, con una quota di moduli fotovoltaici di solo 9 gigawatt per nulla idonea a soddisfare la domanda annuale installazioni e a sopperire alla parte di mercato lasciata scoperta ci pensano proprio le importazioni dalla Cina in aumento, mentre la produzione europea è lasciata al suo declino, con parecchie realtà imprenditoriali in crisi e alle soglie dell’insolvenza.

Con queste premesse, non si fa fatica a comprendere perché a livello europeo venga nominata “la minaccia cinese”, utilizzando le parole Johan Lindahl, segretario generale dell’European Solar Manufacturing Council, cioè l’organizzazione che rappresenta le industrie manifatturiere del fotovoltaico europeo.

Una minaccia a cui - secondo alcune indiscrezioni riportate su Financial Times - Bruxelles sta cercando di porre un freno avviando un’indagine anti-dumping nei confronti di Pechino.

Si tratta di un’inchiesta finalizzata a scoprire presunte politiche commerciali scorrette (chiamate appunto dumping) che consistono nel vendere all’estero prodotti a un prezzo inferiore al loro costo di produzione, rinunciando a qualunque profitto o addirittura subendo delle perdite, pur assicurarsi più quote di clienti possibili. E una volta raggiunta una solida presenza su un mercato, aumentare gradualmente i prezzi per compensare le perdite.

L’avvio di un’indagine di questo tipo (conclusa a buon fine) è il presupposto necessario per l’applicazione di dazi doganali mirati proprio a limitare simili pratiche distorsive del mercato e proteggere gli interessi dei produttori, oltre che dei consumatori.

Non rappresenterebbe un caso isolato, dato che proprio lo scorso settembre la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen annunciava l’apertura di una «indagine anti-sovvenzioni nel settore elettrico dei veicoli provenienti dalla Cina» proprio per favorire la concorrenza ed evitare dannose corse al ribasso dei prezzi.

Alzare i costi delle esportazioni potrebbe sicuramente limitare l’eccesso di offerta proveniente da Pechino, anche se fra i funzionari di Bruxelles si discute della possibilità di nuovi incentivi economici per i singoli Governi per aiutare le fabbriche in difficoltà.

Fra tutte, l’azienda svizzera Meyer Burger Technology starebbe ponderando l’idea di chiudere una delle fabbriche più grandi d’Europa situata a Freiberg (Germania), lasciando a casa un organico di circa cinquecento lavoratori dopo neanche tre anni dall’apertura.

Una scelta che si fonda sui bilanci perennemente in rosso dell’azienda, che chiede aiuti pubblici pari a 450 milioni di franchi svizzeri per tamponare le perdite e salvaguardare i propri dipendenti. Sempre che l’impresa non decida prima di delocalizzare definitivamente negli Stati Uniti, il cui governo, grazie all’Inflation Reduction Act varato nell’agosto del 2022, ha messo sul piatto oltre 369 miliardi di dollari a disposizione delle aziende per investire in tecnologie e soluzioni climatiche sostenibili.

Attualmente l’Unione europea non ha ancora delineato un piano definito per sostenere l’industria fotovoltaica interna e proteggerla dai ribassi inafferrabili della Cina. Ma servirà prendere una decisione in fretta e svegliarsi dal torpore pur di impedire che le realtà imprenditoriali più promettenti e tecnologicamente avanzate - necessarie per la agognata transizione energetica - si spostino in massa verso scenari economici extraeuropei più attraenti, o che addirittura rimangano schiacciate dal peso di una concorrenza spietata.

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