Ambiente

Davos: la crisi climatica è stata l’elefante nella stanza

Al World Economic Forum si è parlato troppo poco di clima. Intelligenza artificiale e conflitto in Medio Oriente hanno rubato la scena. Deludente l’intervento di Von Der Leyen su Green Deal e rinnovabili
Credit:  EPA/GIAN EHRENZELLER  

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22 gennaio 2024 Aggiornato alle 18:00

C’era da aspettarselo: a questa edizione del World Economic Forum appena conclusasi a Davos, il cambiamento climatico è rimasto ai margini delle discussioni.

Nonostante il 2023 sia stato l’anno più caldo di sempre mai registrato, e a fronte delle temperature anomale che in queste prime settimane di gennaio hanno interessato diverse regioni del mondo, affrontare la crisi climatica non sembra essere la priorità delle èlite che si sono incontrate la scorsa settimana durante la 54esima edizione del Summit.

D’altra parte, va detto che il contesto geopolitico in cui si è svolto il World Economic Forum quest’anno è particolarmente complesso, e con due conflitti in corso alle porte dell’Europa era quasi inevitabile che l’attenzione venisse catalizzata da un dibattito sui temi della sicurezza e della cooperazione internazionale.

È fisiologico: ogni anno ci sono degli argomenti che monopolizzano il dibattito a scapito di altri, e che tuttavia meriterebbero più spazio.

Lo scorso anno si era parlato moltissimo di criptovalute e della guerra in Ucraina. Quest’anno il focus è stato sul Medio Oriente, sull’intelligenza artificiale e sul possibile secondo mandato di Donald Trump, che a seguito dell’endorsement di Ron DeSantis, considerato il suo unico vero rivale alla corsa alle primarie repubblicane, con ogni probabilità sarà il candidato che sfiderà Biden alle elezioni presidenziali del 5 Novembre.

Anche in questa edizione, come nelle passate, di cambiamento climatico si è parlato, ma non abbastanza. Per quanto la crisi ecologica sia diventata una costante nei programmi di questi meeting internazionali, c’è la netta sensazione che la cerchia finanziaria di Davos rimanga concentrata su altre crisi del momento e che i leader politici si guardino bene dal considerarla un perno strategico della loro agenda, perché considerata meno profittevole dal punto di vista economico ed elettorale.

Eppure, in un anno come il 2024 in cui quasi metà della popolazione mondiale si recherà alle urne, parlare di emergenza climatica è quantomai urgente.

I presidenti e capi di stato che saranno eletti quest’anno saranno quelli che governeranno i propri Paesi da qui ai prossimi anni, traghettandoli verso il 2030, considerato da molti scienziati come possibile punto di non ritorno in mancanza del raggiungimento di target climatici ambiziosi che prevedono una riduzione drastica delle emissioni di gas serra.

«Non stanno parlando molto del clima, della biodiversità, di questa crisi in generale, e questo non è accettabile», ha dichiarato Hindou Oumarou Ibrahim, attivista climatica del Ciad. «Ci sono molte crisi in tutto il mondo, lo capisco. Ma molte di queste crisi sono legate alle risorse naturali, sono guidate dal clima. Perché non se ne parla?».

C’è un senso diffuso che, per quanto gravi possano essere le sfide della crisi climatica, gli interessi non sono ancora abbastanza urgenti da giustificare azioni drastiche. E per giunta, sembra che questo atteggiamento non si manifesti soltanto all’interno della cerchia ultra-privilegiata di Davos, ma anche tra la gente comune. «Penso che ci sia un po’ di una sorta di stanchezza da catastrofe climatiche, ha poi affermato Andres Gluski, amministratore delegato di Aes, azienda di energie rinnovabili, riferendosi alla cosiddetta climate catastrophe fatigue. «Le persone dicono: ‘Sì, sì, il mondo sta per finire. Ma io vado ancora in vacanza sulle isole greche o alle Bahamas», implicando che ciò che preoccupa maggiormente è l’incapacità dell’essere umano di far fronte a sfide strutturali che richiedono pragmaticità, lungimiranza e strategie di lungo periodo. «Gli esseri umani non sono ben adattati a reagire a cambiamenti a lungo termine», ha aggiunto Gluski.

Insomma: il cambiamento climatico richiederà trasformazioni profonde nei prossimi decenni, e non si può pensare di risolverla da un giorno all’altro, o nell’arco di un Forum di una settimana.

La transizione ecologica richiederà enormi investimenti che potrebbero non generare profitti per anni. E tuttavia, il costo dell’inazione sarebbe ancora più alto, se non iniziamo ad agire ora, intensificando gli sforzi e le azioni collettive di mitigazione e adattamento.

Sembra proprio che l’umanità sia, in questa fase, la principale nemica di sé stessa, il principale ostacolo verso il raggiungimento di questo obiettivo.

Deludente anche l’intervento della Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen, che nel suo discorso fa ricorso a toni decisamente meno trionfanti e ottimisti rispetto allo scorso anno, quando aveva dichiarato che l’Ue sarebbe presto diventata “la patria della tecnologia pulita”.

Von Der Leyen ha preso parola martedì, tornando a Davos praticamente a mani vuote.

Nonostante le promesse, negli ultimi mesi la Presidente si è dovuta scontrare con un mondo abbastanza diverso rispetto a quello del 2023: i partiti di estrema destra hanno approfittato dell’inflazione in aumento e dei bilanci stringenti per opporsi alle politiche climatiche, mentre la guerra in Ucraina, il conflitto in Medio Oriente, e la paura che Donald Trump riporti l’isolazionismo americano alla Casa Bianca hanno spinto i governi a rafforzare i loro bilanci militari. Ecco: sicuramente una nuova ondata di conservatorismo, l’austerità fiscale e la ripresa delle ostilità tra Israele e Hamas non hanno aiutato.

Il risultato è che molti dei nuovi fondi previsti sono stati congelati, e che l’annunciato “sovereignity fund” non si è mai concretizzato.

Non sorprende quindi che a Davos le dichiarazioni di Von der Leyen siano state poco ambiziose, con riferimenti vaghi alla “forte e competitiva presenza europea nella nuova economia dell’energia pulita”.

«Ciò che emerge è una riduzione delle ambizioni dell’Ue nel finanziare le tecnologie rinnovabili del futuro», ha dichiarato Ciarán Humphreys, ricercatore specializzato negli investimenti climatici presso il think tank parigino I4CE. E ha poi aggiunto. La «mancanza di nuovi finanziamenti significativi dell’Ue per la tecnologia pulita» è sintomatica del fatto che «non abbiamo il consenso politico per rimanere nella corsa alla tecnologia pulita, e così stiamo di fatto lasciando che altre nazioni come gli Stati Uniti e la Cina ci superino».

In questo quadro piuttosto grigio, bisogna comunque ammettere che, per quanto marginali, le conversazioni sul clima non sono state completamente assenti dal programma, soprattutto per quanto riguarda le decine di side events che si sono susseguiti durante le giornate del Summit. Tra le figure di spicco che hanno presenziato al Forum, non sono passate inosservate le parole del Presidente della Banca Mondiale, Ajay Banga, che ha ribadito la necessità di portare l’energia rinnovabile in Africa per far sì che i Paesi del Sud Globale non vengano lasciati indietro nella transizione ecologica.

Anche John Kerry, l’inviato speciale statunitense per il clima, ormai in uscita, ha preso parola a Davos, soffermandosi sul recente accordo firmato a Dubai e nutrendo speranza sul fatto che l’inserimento della formula transitioning away nel testo finale abbia rappresentato un punto di svolta nella storia delle negoziazioni climatiche.

Persino Johan Rockstrom, direttore del Potsdam Institute for Climate Impact Research, ha espresso un timido ottimismo in merito a quanto successo a Davos: «Se è vero che il clima non è stato in cima all’agenda, va detto che non è nemmeno stato escluso dall’agenda». E ha poi aggiunto «Ciò rappresenta un progresso. Dimostra che nonostante la geopolitica, nonostante tutto il resto, la gente capisce che dobbiamo agire».

Non possiamo però accontentarci di una consapevolezza crescente. Il 2030 è sempre più vicino, e la finestra d’azione si sta chiudendo sempre più in fretta.

Il cambiamento climatico non può più essere derubricato a un fastidioso rumore di sottofondo con cui convivere e che, prima o poi, qualcuno provvederà a silenziare. I danni che questo atteggiamento negligente potrebbe provocare da qui a pochi anni saranno irreparabili, se continuiamo a temporeggiare e non cominciamo da subito a trattare la crisi ecologica con la dovuta serietà e urgenza.

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