Ambiente

Il business dell’industria zootecnica cestina 18 miliardi di animali l’anno

Nel 2019, 77,4 milioni di tonnellate di carne delle sei principali specie animali allevate per il consumo umano sono andate perse lungo la filiera alimentare, provocando morti inutilmente. Per lo più, tra atroci sofferenze
Credit: Leah Kelley
Tempo di lettura 7 min lettura
8 gennaio 2024 Aggiornato alle 07:00

Le feste di Natale sono appena finite e gli stomaci di gran parte del mondo occidentale impiegheranno i prossimi mesi a cercare di smaltire l’esagerata quantità di cibo ingerita. Lasagne al ragù, zampone e lenticchie, baccalà, salmone affumicato, salsiccia in umido, costolette… Ma cosa succederebbe se, per una volta, cambiassimo il nome a questi piatti e iniziassimo a vederli come: lasagne con mucca e maiale tritati, zampa di un maiale che fino a pochi giorni prima respirava, merluzzo salato, salmone, pezzi di svariati animali tra cui cuccioli di capre e pecore al forno o al sugo? Ma, soprattutto, cosa direste se vi dicessi che gran parte di questi animali sono morti invano?

Prima di abbandonare la lettura con la convinzione che questo sia l’ennesimo articolo pro-cucina vegetale e contro ogni tipo di dieta onnivora, aspettate un attimo. Date una possibilità a queste parole e scoprirete, a breve, che nei prossimi paragrafi c’è in realtà molto di più e che riguarda la vostra salute, quella di chi vi circonda e che chiamate famiglia, oltre che il futuro - non troppo lontano - della natura che spero abbiate a cuore.

L’umanità consuma ogni anno 360 milioni di tonnellate di carne. Ogni giorno - cioè ogni 24 ore - vengono uccise 1.4 milioni di capre, 1.7 milioni di pecore, 3.8 milioni di maiali, 11.8 milioni di papere (come quelle che ammirate con i vostri figli al giardinetto vicino a casa), 202 milioni di polli ossia 140.000 al minuto, centinaia di milioni di pesci e mammiferi marini, e circa 900.000 mucche. È stato stimato che se ogni mucca macellata per il consumo umano ogni giorno fosse lunga 2 metri e camminassero una dietro l’altra, la fila si estenderebbe per 1800 chilometri, ossia la distanza che c’è tra Amburgo (Germania) e Napoli.

Numeri enormi, che assumono un peso ancora maggiore se pensiamo che una buona parte della carne ricavata da questi animali finisce poi nella spazzatura. Nel 2019, infatti, 77.4 milioni di tonnellate di carne delle sei principali specie animali allevate per il consumo umano, sono andate perse e sprecate lungo la filiera alimentare il che corrisponde a 18 miliardi di animali morti inutilmente e, per lo più, tra atroci sofferenze.

Vista da un’altra prospettiva, è come se ogni cittadino medio avesse gettato nella spazzatura 2,4 animali dopo averli fatti macellare. I numeri includono gli animali persi in qualsiasi punto della catena di approvvigionamento: da quelli morti prematuramente negli allevamenti o durante il trasporto al macello, durante la lavorazione o nei ristoranti, nei negozi di alimentari e dai consumatori.

Qualche tempo fa, durante una cena di lavoro, mi sono trovata seduta al fianco di un collega: estremo sostenitore dell’industria della carne, lui, incapace di comprendere la sofferenza imposta a un altro essere vivente, io. La sua posizione, difesa fino allo stremo, era che il nutrirsi di un animale sia nobile e giusto fin tanto che ne rispettiamo il sacrificio e ne apprezziamo il cibo che ne deriva. Tuttavia, a fronte dei dati sopra citati, sarebbe da chiedersi come questo ragionamento possa stare in piedi.

Viviamo, indubbiamente e ormai da molti decenni, in un mondo in cui l’industria zootecnica ha soppiantato l’allevamento familiare e in cui la sussistenza è stata messa alla porta a favore di un consumismo sfrenato che non solo non rispetta gli animali di cui ci nutriamo, ma che non ha alcuna remora a affamare ancora di più gli 828 milioni di persone che soffrono la fame e che corrispondono a ben il 10% della popolazione mondiale.

Quello che chiamiamo allevamento intensivo, infatti, è un modello di produzione - se così lo vogliamo chiamare nonostante si parli di vite animali e non di oggetti - che non nasce per sfamare le persone ma per generare profitto a discapito della salute umana e ambientale, oltre a beneficiare della sofferenza inflitta agli animali per l’intero corso della loro vita, passata al buio, stipati in spazi minuscoli e angusti, impossibilitati a soddisfare ogni minimo bisogno etologico: dalla riproduzione - perché è bene che sappiate che i cuccioli di cui ci nutriamo sono frutto di inseminazione artificiale - al parto, alla nutrizione.

Ignorare l’impatto della produzione globale di carne, in un momento caratterizzato da una crisi ecologica diffusa è un errore di cui abbiamo già iniziato a pagare le conseguenze. Secondo la Fao l’industria zootecnica è responsabile del 14,5% delle emissioni di gas a effetto serra oltre a contribuire al degrado del suolo e all’inquinamento.

La stessa Oecd ha collegato l’allevamento di maiali all’inquinamento di fiumi, laghi e falde acquifere visto che non è raro che i reflui vengano gestiti in maniera errata dalle aziende.

Com’è successo in Spagna dove, nel 2019, il Governo ha confermato il ruolo degli allevamenti di suini, che allora ospitavano circa 800.000 animali, nella moria di massa che ha colpito il Mar Menor, una delle lagune salmastre più grandi d’Europa.

Da un’indagine effettuata in seguito, è risultato che oltre il 90% delle aziende non rispettava le norme in materia di smaltimento dei reflui dando vita a fiumi di letame, lì come altrove, dove sovente ci siamo fatti il bagno d’estate o che magari abbiamo bevuto. Con buona pace di quelli per cui “del maiale non si butta via nulla”.

A questo si aggiungono gli effetti diretti del consumo di carne sull’organismo.

Il rischio di sviluppare un cancro all’intestino aumenta del 18% volte per ogni 50 grammi di carne lavorata consumata al giorno. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato le carni lavorate, tra cui prosciutto, pancetta, salame e wurstel, come cancerogeni di Gruppo 1, il che significa che ci sono forti prove che causino il cancro. Mentre la carne rossa, come quella di manzo, agnello e maiale, è stata classificata come cancerogeno di Gruppo 2A, il che significa che probabilmente provoca il cancro. E se vi state focalizzando su quel “probabilmente”, vi ricordo che fino a qualche decennio fa le sigarette non solo non erano considerate pericolose ma gli stessi medici fumavano nelle corsie degli ospedali. Poi sono nate le prime correlazioni, sono arrivati i primi “è probabile”, e ora il fumo è collegato allo sviluppo di almeno 15 tipologie differenti di tumore ed è responsabile di oltre 7 milioni di morti l’anno.

Ma la moderna zootecnia, così come l’allevamento estensivo, stanno letteralmente spazzando via anche la biodiversità del Pianeta visto che, a oggi, esseri umani e bestiame costituiscono circa il 96% di tutta la biomassa dei mammiferi sulla Terra. Tutti gli altri, ossia elefanti, balene, orsi, lupi, ratti… Sono solo circa il 4,2%. Per esempio, i polli d’allevamento rappresentano il 57% di tutte le specie di uccelli in termini di massa.

L’espansione agricola è alla base di quasi il 90% della deforestazione a livello globale di cui un 40% imputabile al solo allevamento. Una realtà evidente quando si attraversano Centro e Sud America, dove le foreste primarie vengono cancellate, bruciate, rase al suolo per far spazio ai pascoli, e dove è più facile avvistare una mucca che una scimmia. Tuttavia, se si tiene conto della superficie totale dei terreni arabili utilizzati per il pascolo del bestiame e dei terreni coltivati per la produzione di mangimi, l’allevamento

occupa quasi l’80% di tutti i terreni agricoli.

Negli Stati Uniti, quasi la metà della soia e il 15% del mais prodotti vengono esportati per rifornire gli allevamenti nazionali distribuiti all’estero.

Nel 2020, 290 milioni di tonnellate di cereali sono state usate, a livello mondiale, per sfamare mucche, maiali, polli, capre e tutte le altre specie che siamo soliti servire in uno o più dei pasti che consumiamo ogni giorno.

Al contrario, se adottassimo una dieta vegetale, ridurremmo la percentuale di terreni a uso agricolo da 4.000 miliardi a 1.000 miliardi di ettari.

Ecco, quindi, quanto è virtuoso il settore che afferma di essere nato per sfamare la popolazione mondiale e che, invece di utilizzare acqua e suolo per produrre cibo, li sfrutta per nutrire animali che poi uccidiamo e gettiamo in gran parte nei rifiuti. Lasciando a morire di fame chi, un tacchino ripieno, l’ha visto al massimo su una rivista che ha raccolto in qualche discarica di rifiuti in cui lavora ogni giorno e che la mucca tutta pelle e ossa che alleva davanti alla sua baracca, la usa al massimo per il latte con cui sfamare i propri bambini.

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