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Petna Ndaliko Katondolo: «siamo responsabili del benessere del Pianeta»»

In Italia per promuovere il crowdfunding per le riprese di Basandja, il regista congolese ha parlato a La Svolta di sfruttamento, popoli indigeni e rapporto tra colonialismo e crisi climatica
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12 dicembre 2023 Aggiornato alle 12:00

Per Petna Ndaliko Katondolo, pluripremiato regista congolese, attivista, educatore, fondatore e direttore artistico del centro culturale Yole! Africa di Goma e del Congo International Film Festival, la colonizzazione dell’Africa non è stata solo occupazione genocidaria, devastazione, sfruttamento, deportazione e razzismo. Ha anche «spezzato il cerchio cosmologico di appartenenza, interrotto le connessioni astrali, disgiunto i lignaggi e imprigionato l’immaginazione».

La violenza europea che a partire dalla metà del 1800 ha stravolto un intero continente, ucciso e inaugurato un antesignano metodo nazista durato un secolo e mezzo e stabilito su popolazioni inermi una Shoah permanente per la quale si attende ancora una Norimberga che faccia giustizia, ha infinite colpe. Quella che lascia tuttora segni indelebili è aver introdotto una pratica estrattiva e predatoria che ha in un colpo solo impoverito decine e decine di milioni di individui ricchissimi di loro risorse, causato conflitti, aumentato a dismisura fatturati esterni e rotto un equilibrio tra esseri umani e natura che ha condotto all’attuale crisi climatica.

«Così come una delle azioni iniziali dell’invasione dell’Africa è stato tagliare tutta la biodiversità e costruire sullo stesso spazio strutture per l’estrattivismo – ha spiegato a La Svolta - questa pratica ha occupato oggi il centro del governo mondiale. Esiste quindi un legame tra il colonialismo e la crisi climatica che viviamo oggi».

È molto utile conversare con questo artista congolese dallo stile provocatorio, afro-futuristico, in grado di utilizzare contenuti storici per affrontare questioni socio-geo-politiche e culturali contemporanee, mentre a Dubai si svolge la Cop28. I suoi messaggi vanno in profondità ma non si limitano a principi e evocazioni, vogliono innescare azioni politiche, cambiamenti. E allora, partiamo dall’inizio, dall’ambiente primordiale e addentriamoci con Petna nell’affascinante concetto di Ecologia Ancestrale.

«L’ecologia ancestrale è una teoria, una pratica profonda che sostiene una comprensione e una connessione olistica con la Terra. Questa non è vista semplicemente come una risorsa materiale, ma come un essere vivente complesso, un olobionte che tiene in equilibrio l’insieme dei sistemi vitali. Attingendo a molteplici fonti culturali indigene, questa comprensione incoraggia gli individui a riconoscere la Terra come custode della conoscenza e della rete interconnessa della vita. Un essere che merita cura, considerazione e una nobile responsabilità. Nell’abbracciare la Terra come entità vivente, un insieme di intelligenza bio-spirituale, l’Ecologia Ancestrale sottolinea la responsabilità degli esseri umani: in quanto parte della comunità degli esseri viventi, siamo responsabili di salvaguardare il benessere del Pianeta, riconoscendolo come l’ultimo deposito e fonte di guarigione, saggezza e resilienza. La nostra sopravvivenza come specie chiamata umanità dipende da questa consapevolezza».

Quali sono secondo lei gli impatti che una tale teoria può avere a livello politico?

Questo cambiamento di prospettiva può influenzare le politiche ambientali e individuare e supportare le pratiche sostenibili e gli sforzi di conservazione. Bisogna contestualizzare le nostre scienze in evoluzione in modo da portare a una comprensione molto più completa dell’impatto delle attività umane sul Pianeta. a esempio, quando si parla di diritti umani nell’Ecologia ancestrale, si amplia questa visione per includere i diritti di tutti gli esseri viventi, compreso tutto ciò che è considerato non organico. Così, quando i governi introducono una nuova politica, allora le acque, gli animali o gli alberi dovrebbero essere presi in considerazione così come uomini e cose. Le faccio un esempio: per dare vita a progetti di ricostruzione e ripresa dopo una guerra, un disastro ambientale o una crisi, si immaginano percorsi di riconciliazione tra nemici, compensi e sussidi per chi ha perso tutto, risarcimenti per i danni umani e materiali, ma non si pensa mai a quanti alberi sono stati devastati, a quanta acqua persa agli animali morti o feriti. Anche loro sono vittime e l’equilibrio va in qualche modo ristabilito.

Il Congo è forse l’emblema maggiore, a livello planetario, di cosa abbia significato e continui a significare sfruttamento, depauperamento ed esclusione dei popoli indigeni…

Noi immaginiamo il Congo come uno spazio condiviso da tutti i popoli e le culture, ma in realtà le comunità native di queste geografie sono state sistematicamente escluse dai processi decisionali che riguardano le loro vite. Nel corso delle ultime generazioni, i popoli nativi hanno lottato per far sì che la loro voce e le loro concezioni indigene della cultura e degli ecosistemi venissero prese in considerazione, ma i loro sforzi si sono costantemente scontrati con la violenza brutale e la repressione da parte dei funzionari, siano essi del regime coloniale o delle attuali reminiscenze. Per un primo e sconcertante esempio di tale violenza, basti pensare ai milioni di persone che furono uccise o a cui fu tagliata la mano dal re del Belgio, Leopoldo II, a causa del boom dell’industria automobilistica alla fine del 1800. In secondo luogo, ricordiamo come il primo ministro del Congo appena divenuto indipendente, Patrice Lumumba, sia stato ucciso, fatto a pezzi e sciolto nell’acido per aver chiesto l’autonomia economica del Congo. Questa eredità continua attraverso le massicce atrocità sessuali contro donne e uomini usate come strategia di guerra per svuotare i villaggi della loro popolazione in modo che le multinazionali possano accedere alle miniere per l’estrazione di coltan e cassiterite che alimentano l’industria digitale. La pratica sistemica dell’estrazione post-coloniale continua attraverso la proliferazione di guerre per procura che sono consentite per facilitare e rispondere all’elevata domanda di cobalto per la necessità di passare all’energia verde.

In questo periodo lei sta promuovendo un crowdfunding per ultimare il suo nuovo film Basandja di cui ha già girato e montato una prima parte, che parte proprio da questi presupposti da lei appena declinati, può parlarci di questa sua nuova fatica?

Basandja è un film che si inserisce esattamente nel contesto geopolitico di cui ho parlato qui sopra. È un lavoro che cerca di radicarsi nella teoria della “ricodifica estetica”, ispirata all’ecologia ancestrale e alla pratica Lobi Ejo (un modo totalmente diverso di comprendere la temporalità basato sulla nozione di reciprocità e interdipendenza con tutti gli esseri viventi, ndr). L’obiettivo del film è da una parte recuperare quelle forme di conoscenza e saggezza indigene e raccontare le loro storie per ricordare e proporre modi per coinvolgere l’immaginazione del discorso politico ed ecologico contemporaneo in modo da formare una comprensione più inclusiva e localmente informata, dall’altra trasformare l’attuale mentalità di estrazione e sfruttamento delle risorse materiali in una comprensione interrelazionale a centri multipli. Basndja mira a promuovere una visione del futuro proposta dalle culture e dalle pratiche indigene che hanno sviluppato la loro comprensione attraverso relazioni simbiotiche con le foreste e le acque che hanno sostenuto le loro comunità da tempo immemorabile.

La sua è una proposta di azione?

Sì esattamente. Vi propongo questa come un’opportunità incisiva per impegnarsi in un’indagine più profonda e nell’ascolto di custodi della conoscenza riconosciuti a livello locale, la cui comprensione è nata attraverso un’esperienza vissuta per tutta la vita nelle ecologie e nelle comunità in cui vivono. Vi chiedo di considerare l’enorme opportunità che è a portata di mano, di essere in grado di impegnarsi con i serbatoi di conoscenza indigeni in modo da sintetizzare nuove possibilità per le avventure sociali adattate a soluzioni sostenibili per una vita migliore per tutti.

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