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Claudia Brignone: «La maternità non sempre è sinonimo di felicità»

«È uno sconvolgimento emotivo e fisico; ognuna deve sentirsi libera di viverla come crede» ha spiegato a La Svolta la regista di Tempo d’attesa, che racconta esperienze e aspettative che un gruppo di future mamme confida a un’ostetrica
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7 dicembre 2023 Aggiornato alle 10:00

Sono mani che curano, abbracciano, ascoltano, misurano, accarezzano. Sono mani “materne” quelle di Teresa De Pascale, ostetrica illuminata e saggia, protagonista di Tempo d’attesa, film diretto da Claudia Brignone, presentato in concorso nella sezione documentari italiani al 41° Torino Film Festival.

Sono mani attente, discrete e delicate quelle che ci conducono verso un’esperienza corale che risponde allo spaesamento comune da parte di chi cerca risposte nel delicato momento della gravidanza. Sono le mani di Brignone, che La Svolta ha intervistato.

Come nasce questo docu-film?

Il film nasce dall’esperienza personale della mia gravidanza. Dalla paura di diventare madre e di affrontare questo passaggio. Ho cominciato così a cercare esperienze che mi potessero sostenere in questo momento della vita. Volevo smettere di avere paura e accogliere mia figlia nel migliore dei modi. Sentivo un grande senso di responsabilità. Durante la mia ricerca ho incontrato un’ostetrica e un gruppo di donne, grazie alle quali la mia paura si è trasformata in forza.

Il documentario Tempo d’attesa si svolge intorno alla figura di Teresa De Pascale, ostetrica e fondatrice di Terra Prena, associazione che da oltre 20 anni favorisce l’incontro e lo scambio di esperienze tra donne durante il periodo della gravidanza e dopo il parto. Quanto è importante, per lei, approfondire il tema sociale della maternità oggi e di come sia cambiato negli anni?

La maternità mi ha cambiato la vita. Una parte di me non c’è più e non tornerà, forse per questo il tema mi interessa molto. In questi 3 anni di lavoro ho ascoltato tante storie di donne e mi sono molto interrogata su quanto sia importante vivere una buona esperienza di parto e di nascita per la madre e per il bambino e se questa esperienza possa avere delle conseguenze nella vita e nella relazione tra madre e figli. Credo che rispetto al passato ci siano certamente dei cambiamenti. Oggi il problema più grande è l’isolamento delle madri: in passato le famiglie erano allargate e meno distanti, e accoglievano la nascita sia della madre che dei bambini come un evento naturale. Oggi, paradossalmente, siamo più sole. Inoltre dai racconti sentivo una grande pressione rispetto al fatto che le donne devono essere sempre performanti: devono lavorare, stare in forma, stare in famiglia. Sembra che devi riuscire a fare tutto dimenticandoti, a volte, che per crescere un figlio, soprattutto nel primo anno di vita, è necessario un tempo lento di cura e di ascolto.

Una grande magnolia, quella che si trova nel Bosco di Capodimonte, a Napoli, raccoglie le confidenze, le esperienze e le aspettative per il futuro di un gruppo di donne incinte. Quanto questo arbusto rappresenta la proiezione di quell’aspetto “materno” che Teresa manifesta nell’accogliere queste sconosciute?

La magnolia per me è la rappresentazione di una natura accogliente. Questo è anche il motivo perché ho scelto la magnolia come poster del film. Le donne si danno appuntamento lì sotto per trascorrere una giornata insieme a Teresa, come se il tempo si fermasse e potessero finalmente essere libere di dire e pensare ciò che desiderano. È un momento di scambio, confronto e condivisione e il paesaggio e il contesto in cui le donne si trovano fa certamente la differenza.

Perché gli incontri con Teresa De Pascale fanno così bene?

Perché stare insieme è necessario e perché una guida in alcuni momenti della vita può essere davvero una risorsa. Il passaggio da figlia a madre è solo uno dei passaggi della vita di una donna, ce ne sono tanti ovviamente di fasi nelle nostre vite, ma credo che affrontare i cambiamenti con sostegno e cura sia di grande importanza. Teresa fa questo: lei c’è. A volte dice la sua, anche in maniera diretta, in alcuni casi va a scardinare le tue certezze ma in alcuni momenti può essere davvero molto utile. I suoi incontri fanno bene perché tutti hanno bisogno di essere ascoltati e perché si creano legami profondi al di là delle diversità di ognuno e ognuna.

Le protagoniste di Tempo d’attesa raccontano qualcosa di sé e riflettono, insieme a Teresa, sul momento di passaggio che stanno vivendo, denso di emozioni, dubbi e paure. Quanto è stato facile o difficile conquistare la fiducia di queste donne in un momento così delicato della loro vita?

Le donne mi hanno sempre sentito dalla loro parte e questo mi ha permesso di muovermi liberamente con la camera cosi vicina ai loro corpi. Sentivano la mia urgenza di racconto che forse era anche la loro.

Tempo d’attesa sembra essere una riflessione sulla nascita, sull’essere genitori oggi, e sul percorso che rende una donna madre nei suoi risvolti psicologici e culturali. Ma siamo sicuri che questo documentario si rivolga solo alle future mamme?

Sinceramente spero che questo sia un film per tutti. La nascita coinvolge tutti in realtà. Nascere in un ambiente di accoglienza e cura credo sia un diritto di tutti.

Nel film ci sono anche i padri che accompagnano, che interrogano e che vivono con le donne questo passaggio così importante e delicato.

Dalla prima all’ultima scena del film emerge come quello che sembra un viaggio nelle vite di tante donne che si incontrano in un cerchio diventi poi un legame, come se fare comunità diventasse un vero e proprio bisogno. Quanto la solidarietà femminile aiuta il “tempo d’attesa”?

Il film è su questa comunità che cresce e che ha bisogno di stare insieme. Questo legame è davvero importantissimo per me. Davvero anche le cose più difficili vissute in solitudine possono diventare pesantissime; invece, la forza di un gruppo che ti sostiene può fare la differenza. Mi auguro che tutti nella vita possano incontrare un cerchio, una rete, perché è davvero una risorsa necessaria.

Quanto e perché possiamo ritenere rivoluzionario il modo di creare comunità messo in atto da Teresa?

Oggi andiamo tutti troppo di fretta. Teresa si siede sul prato e ti dedica del tempo, un tempo lento di ascolto e di cura. Questa per me è una grande rivoluzione. La maternità non sempre è sinonimo di felicità. È uno sconvolgimento emotivo e fisico e credo che ognuna deve sentirsi libera di viverla come crede. Questa lentezza e questi incontri mi hanno aiutato a rintracciare il mio sentire, quello che desideravo davvero, e a comprendere come volevo realmente vivere questa esperienza. Riuscire a contattare il proprio istinto in una società in cui siamo bombardati da tanti messaggi, da cosa è giusto e cosa non lo è, credo sia davvero un atto rivoluzionario. Per me è stato un processo di consapevolezza importante che mi ha poi aiutato a vivere la gravidanza, il parto e la relazione con mia figlia come un momento di crescita e di empowerment che non immaginavo di vivere.

Sulla carta, ognuna può scegliere come gestire il proprio tempo d’attesa e come partorire. Al momento del parto, però, la paura delle protagoniste resta sempre una: come si può seguire il proprio istinto e depennare regole standardizzate da altri? Come si può evitare, anche in questo caso, la “violenza sulle donne”?

In questi anni ho capito che l’unico modo per evitare situazioni di violenza (nello specifico direi anche violenza ostetrica ma non solo) sia come dice Teresa: «Trovare in noi la forza per non subire le violenze». Questa forza la costruisci sia con il sostegno di un gruppo e sia rintracciando il tuo sentire, diventando più consapevole.

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